giovedì 5 giugno 2014








La cosa in sé tra rito e discontinuità.

La cosa in sé fu l’oggetto mentale che Kant utilizzò per provocare se stesso e i filosofi del suo tempo. È come se avesse detto loro: “per quanto voi vi sforziate in realtà il vostro è solo un esercizio interpretativo attorno alla cosa in sé, perché, essa non rientra tra gli oggetti della nostra possibile conoscenza, anzi, si situa provocatoriamente al limite di essa, la percepiamo, ma non possiamo conoscerla”.
Kant percepiva la cosa in sé come “noumeno”, cioè come oggetto del puro pensiero che lui poneva in irrisolvibile contrapposizione con il “sensibile”, cioè con l’oggetto della sensibilità. Poi Kant incontra Hume che, per sua stessa ammissione, l’aiuta a superare una certa rigidezza dogmatica.
Io penso che kant, forse, da quel momento inizi ad ammettere nel suo intimo che la cosa in sé aveva analogia più con la vita che con il pensiero e che, pertanto, contenesse in sé e nel suo misterioso essere, anche gli effetti dell’azione della casualità e dell’inconsapevolezza. Credo che la cosa in sé fosse percepita come una sorta di mistero che lo provocava, perché di certo provocava la sua necessità profonda di analizzare e definire. Penso che Kant cogliesse una qualche analogia tra l’autoreferenzialità compatta della cosa in sé e l’autoreferenzialità della vita con la sua imprevedibilità che si oppone al binario oleato del pensiero, il quale, invece, persegue il principio di “ non contraddizione”, come guida all’affermazione.
Forse, è proprio da questa percezione dello spaesamento di Kant davanti alla cosa in sé che, per quel contagio, mi sembra di rivivere in modo emotivo, anche oggi, la bruciante analogia tra la cosa in sé e l’arte così indefinibile, eppure così concreta.
Voglio dire che Kant ti propone attraverso la sua opera un terreno di incontro, a tal punto oggettivo che, in qualche modo, lui come persona diventa del tutto secondario. Nel suo incontro con la cosa in sé, invece, improvvisamente e sorprendentemente, ti dice qualcosa su di sé, quasi arrossendo assieme alla sua lucidità filosofica.
Insomma, titolando con la cosa in sé la direzione di un percorso esperenziale per cercare di reidentificare una tipologia dell’arte oggi, è come se recuperassimo quel sottile smarrimento di kant, che ha provocato tante domande.
Certo, oggi quel discorso ci viene imposto dalle cose stesse. Oggi, quella che fu la coscienza dualistica ci va scivolando alle spalle e noi stiamo reintercettando il comportamento dell’essere. Se, infatti, parliamo con un numero alto di persone, dopo che hanno assistito ad un evento, ci rendiamo conto che hanno soltanto bisogno di comunicare il grado del loro coinvolgimento, ma non hanno più la necessità di descrivere o decodificare, ciò che ha prodotto in loro quel coinvolgimento. Ti dicono solo: “bello, commovente, lo consiglio”. Ecco, questo è uno dei tantissimi segni che ci indicano che stiamo riconfluendo nel comportamento psichico che fu dell’essere prima che si determinasse in noi la coscienza dualistica. Coscienza che fu necessaria per avere consapevolezza di ciò che sapevamo e per identificarne i significati.
Certo, quell’antica tipologia dell’essere era agita dall’istinto di sopravvivenza ed era confortata dalla certezza che proveniva dal tempo ciclico della natura e dal suo respiro che rendeva, in qualche modo, prevedibile il futuro.
Oggi rientriamo nell’essere, ma spaesati, perché ci siamo allontanati dall’automatismo tranquillizzante della natura e perché il sociale ci ha tradito. Inoltre, è possibile che la perdita del centro e la sua sostituzione con infiniti centri che non si relazionano con loro, sia un tratto importante che connota la fine della coscienza dualistica? È possibile che il giudizio venga sostituito soltanto dal sentire dell’essere?
Comunque, reintercettare il comportamento psichico dell’essere significa ripercepirsi originanti e non più come avveniva nell’egemonia della coscienza dualistica, percepirsi derivati e significati da narrazioni.
Oggi, per la mutata articolazione dl tempo, a causa dell’abnorme aumento della velocità degli scambi, si determina un tasso di relativizzazione che relativizza ogni certezza. Nel contempo, si è rotta la relazione di continuità contestuale tra pensanti e ciò che è stato già pensato e non perché questo già pensato sia lontano nel tempo, ma solo perché è precedente. Ciò che ci precede, oggi, per l’alta velocità con cui la nostra mente scambia, si determina come già concluso. È come incontrare l’ex partner dopo il divorzio. Qualsiasi storia possa rinascere sarà, comunque, un’altra storia. Il nostro passato può, ormai, vivere in noi solo come stratificazione nel nostro organismo psico-fisico e per l’inerenza emozionale che esso esercita sul nostro presente in atto. Abbiamo fisiologgizzato la storia.
Comunque, la provocazione di Kant sollecitò infinite riflessioni e persino un percorso evolutivo del pensiero che è come se anticipasse alcuni caratteri del tempo che stiamo vivendo oggi. Mi riferisco alla grande riflessione di Hume attorno ai limiti della mente umana con cui essa percepisce ed interpreta la relazione tra i fenomeni. La mente umana fondata sui principi di inizio e fine e condizionata dalle rappresentazioni dello spazio e del tempo, tende a considerare la relazione tra gli oggetti come indotto di un rapporto di causa effetto e, comunque, entro una successione temporale. Invece, secondo Hume si tratta solo di una forma di coesione che la fenomenologia nascente definì, successivamente, come “intersoggettività originaria”. Questa identificazione causale che ritorna a considerare la stessa “vivente soggettività” e l’uomo stesso, entro una sorta di automatismo sino ad “entificare” la sua stessa psicofisicità, mi sembra proponga un tratto importante che anticipa alcuni caratteri del nostro tempo. Soprattutto quando Husserl identifica il movente ottimale del motore connettivo tra fenomeni nelle cose stesse e nella stessa “vivente soggettività”, considerata causa potente soprattutto nella fase “precategoriale” quando essa è originante. Ancora una volta è dalla cosa in sé che nasce, forse, il contenuto motivazionale originario. Penso non solo a quello del sé, ma anche al contenuto che guida l’associarsi dei soggetti ormai svincolati dai contenuti della dimensione pragmatica della società.
Infine, causa e nel contempo conseguenza di tutto ciò, la vita va imponendo la propria centralità e va imponendo nei circuiti mentali di questo assoluto presente, la drammatica questione della propria continuità. La vita diviene la committente del pensiero che perde autonomia dal qui ed ora del presente farsi della vita. E’ talmente forte la suggestione di questo spostamento che l’Epoca precedente, quella dell’egemonia della coscienza dualistica, ci appare lontana e persino patologica. Era come se si pensasse altrove da dove si viveva, mentre oggi si pensa dove si vive. La cosa in sé rappresenta il saldarsi simbiotico della vita con il pensiero. C’è da dire anche che questo tempo ha visto compiersi un doloroso e inedito divorzio tra due importanti dimensioni psichiche della personalità. Quella pragmatica ha trionfato ed è divenuta forma sociale della dimensione collettiva. Invece, le dimensioni introspettive della personalità, che fino a poco tempo fa avevano collaborato con la dimensione collettiva della società, sono state esiliate dalla vita reale da quella stessa collettività. La collettività sociale è oggi corpo pragmatico della mente; conia i termini della sopravvivenza dello “status quo” e del corpo, come oggetti del mercato globale alienato dallo strabismo della finanza. Invece, l’attività introspettiva, soprattutto quella delle personalità più giovani, si va internando in internet come occasione di confessioni intime tra solitudini. Ma questa esperienza non viene poi riportata negli scambi reali, e così la personalità appare scissa. È come se la mente complessa si fosse ripiegata verso il profondo della personalità ed è come se la stessa immagine dell’uomo fosse naufragata nel vuoto della mente. Il corpo, invece, per la fine dell’interazione tra polarità antitetiche a causa di quell’inedito divorzio di cui ho fatto cenno, si presenta oggi come assoluto oggetto del tempo ciclico della natura. Abbandonata la sua tradizionale interazione con l’immateriale, il corpo oggi estende la propria influenza fisica e concettuale sull’intera società. Si potrebbe dire che oggi è la luna, pianeta privo di luce propria, che illumina le stelle. Ma il corpo diviene parte fondamentale del nostro rapporto con la verità.
È sempre più evidente che noi siamo la verità e non le nostre supposizioni di essa. La verità siamo noi e il nostro pensiero l’interpreta. Noi siamo la verità, perché in noi stessi e mediante il nostro essere architettura psico-fisica, siamo articolazione di una verità necessaria alla vita. Al contrario, la nostra potenzialità intellettiva è lo strumento provocatorio di un’eterna domanda alla quale “noi”, che siamo in noi stessi la verità, diamo risposta. È come se il nostro processo mentale, sollecitato dal flusso informativo che proviene dal permanente trasformarsi della realtà, sollecitasse a propria volta il processo evolutivo della cellula. È il processo biologico che stimolato dalla cultura produce le nuove sintesi che sconvolgono i codici precedenti e, solo dopo, la cultura si adegua a quelle nuove sintesi.
L’arte finora  si è avvalsa del contributo di quelle attività della psiche mai recensite dalla storiografia in quanto ritenute esterne al territorio psichico di cui la coscienza consapevole, in qualche modo, si è sempre resa responsabile. Del resto la convinzione che sia soltanto la coscienza consapevole la responsabile di ogni evento fu al centro di quella coscienza dualistica che ha dato vita a grandi esperienze come l’illuminismo o il positivismo. Oggi avvertiamo che il nostro essere straripa oltre il perimetro in cui lo limitava l’ispirazione della consapevolezza. Insomma, ci rendiamo improvvisamente conto di essere responsabili non solo di ciò che sappiamo di noi, ma anche di ciò che di noi non sappiamo. Dunque, noi siamo un’unità che contiene in sé consapevolezza e inconsapevolezza ed è responsabile dell’una e dell’altra.
Si va ampliando il perimetro delle responsabilità della coscienza e quel famoso “pensiero laterale”, sempre attribuito agli artisti e accettato dalla società solo come espressione del loro presunto navigare nel “non senso”, oggi sembra acquisire nuova centralità nel nuovo configurarsi storico della coscienza individuale e del “senso”.
Il fatto è che il superamento della coscienza dualistica esalta l’essere e ci trasforma da derivati del “già pensato” in archivio vivente e quindi ci rende padri del libro ed entità originanti. Di conseguenza si trasforma il nostro rapporto con la cultura che per la fine dell’autonomia teoretica del pensiero, si schiaccia sulla vita. Si azzera la distanza tra pensare ed essere. Io non scelgo di pensare in questo o in quel modo, ma io penso ciò che sono. È come se nel mio complessivo essere fossi portatore di un sogno che sogna, il sogno che la mia coscienza percepisce.  Per questo è come se si dovesse interiorizzare un nuovo principio di relazione tra i fenomeni che non calcola, non giudica, ma accade.
La cosa in sé  propone e stabilizza quel superamento del limite del tradizionale rapporto di causa-effetto e cede, con carattere “istituzionale”, il comando del formarsi del senso alla coscienza alterata che si tuffa nel mare profondo dell’intuizione.
Sono pittore e, oggi, mi appare più evidente come la pittura sia l’immagine del pensiero ferito dagli acuminati indizi della vita, sui quali la pittura fonda la propria funzione sociale. Da tutto questo deriva la forza testimoniale dell’artista che non esprime opinioni, così come fa la gran parte delle discipline, ma si dà, non definisce, ma propone, e ciò per un imperativo del profondo. Questo identifica la natura della pittura come un perno di contrapposizione a quei processi così detti creativi che oggi, spesso applauditi, riempiono gli spazi espositivi.
Oggi come sempre, l’arte si pone come soggetto che ha la necessità di reinventare l’arto della specie che la parzialità della storia ha amputato.
Per concludere queste riflessioni inesaustive per ragioni di spazio, vorrei sottolineare che la coscienza individuale diviene l’unica depositaria dell’attività delle dimensioni introspettive della personalità, ma esclusa dagli scambi reali della vita sociale, inizia a vivere una nuova estensione della propria libertà.
Sarà il futuro a dirci se la produzione della coscienza introspettiva degli individui saprà oggettivarsi utilmente nel corpo collettivo del sociale. La cosa in sé è un’icona, un oggetto mentale, che si apre alla continuità della vita e della sua futuribilità.
La cosa in sé che oggettivizza nella percezione della cultura di domani la nuova relazione tra consapevolezza e inconsapevolezza, si va presentando come quell’impasto di particelle di storia e di a-storia che è speranza del domani.


                                                                                ENNIO CALABRIA


giovedì 30 gennaio 2014

L'Arte e la Critica







martedì 30 gennaio 2014, ore 17
Libreria Odradek, via dei Banchi vecchi 57, Roma

Presentazione del volume


                                                L'ARTE E LA CRITICA                                 

                                      Una raffigurazione che sopravvive
                      Il linguaggio della pittura alla luce delle neuroscienze
                          
di Alberto Gianquinto

  oltre all’autore interverranno:

Ennio Calabria
Giulio Latini
Raul Mordenti
Ida Mitrano
Alessandro Sbordoni


                                        
                       
dalla quarta di copertina

Risultato di più di vent’anni di riflessioni sul linguaggio della raffigurazione pittorica, l’interesse è qui centrato sulla singolarità di un gruppo di artisti in cui persiste, sì una forma raffigurativa, in un’epoca che tende senza troppi complimenti a ignorarla e liquidarla, ma caratterizzata da modalità che oltrepassano la semplice ‘mimesi’, per cogliere dietro la realtà aspetti che le stanno oltre o dentro e che richiedono per questo anche soluzioni compositive nuove: la pittura cosiddetta raffigurativa è insomma tutt’altro che finita.

Più a fondo (e come conseguenza di quanto detto) l’interesse è orientato su problemi di critica rimasti ancora aperti e per i quali ho ritenuto di doverne forgiare anche strumenti nuovi, per affrontarne il senso. L’approfondimento e l’estensione hanno portato a riprendere concetti fondamentali, come nuove forme della spazialità o della tradizionale analisi ‘materica’, nuovi rapporti sulle interazioni fra semantiche e sintassi, sui problemi dell’intermedialità e soprattutto sulle nuove neuroscienze, alla ricerca di una risposta sulle aree strutturali di questo linguaggio, su quanto S. Pinker e S. Zeki hanno fatto a partire dal lavoro di Chomsky.
Infine, ma pure e più che mai essenziale, la questione del rapporto che le arti possono e sono costrette a intrattenere con la cultura, la società e la politica, prendendo esplicita posizione filosofica sul senso che può mai assumere un’“estetica” oggi e il dilemma immanente tra laicità e utopia.
Questo lavoro, se fortemente organico dal punto di vista di una teoria della critica d’arte, raccoglie soltanto alcuni pittori funzionali allo scopo e direttamente conosciuti e analizzati lungo venti anni di considerazioni e discussioni, per mostrarne la vitalità e insieme la diversità nelle forme della loro mimesis, che segna la distanza loro da indirizzi realistici e neorealistici: Vespignani, per il quale dipingere è sognare e ricordare con le mani per narrare l’anima del mondo attraverso cicli pittorici; e Sughi che, diversamente da Vespignani, vuole raffigurare, come tema, la ‘testimonianza’ stessa, cioè una verità che è dietro l’evento vissuto, la domanda esistenziale; e Calabria con la sua riflessione decisiva sul tema dello spazio e della matericità, dove la manualità è già atto sintattico della forma e non immediato caos, e dove oggetto di mimesi è la riflessione mentale; e poi Gianquinto, che apre al racconto con quella forza lirica dove la mimesi è di figure e di cose che appartengono al sublimato del vissuto, attraverso le griglie dell’immagine e del ricordo. Ma poi anche Bibbò, che scende all’essenza del ricordo, e Cattaneo, che all’attuale ricerca di sempre nuovi e vuoti contenuti, oppone le forme di un’alta letteratura; e Guida poi, dove è tematizzata una implicita riflessione sulla storia; e Moretti ancora, che porta nella pittura il tema del silenzio e l’atmosfera musicale di una pittura di ‘punti meridiani’ e del ‘mistero del mezzogiorno’; e così Mulas, dove la mimesis pittorica si fa metafora di cultura e natura; e Colagrossi, che naviga a vista, senza rotta nella storia. Poi la pittrice Rossi, con il suo ciclo dedicato a Hildegard von Bingen, sui reliquiari della pietra; e l’iraqueno Jaber, in cui la mimesi intreccia colore, come impressione, con l’espressione della forma; infine l’austriaco-italiano Eckard, allievo di Kokoschka, ma anche del barocco romano.

La riflessione si allarga poi ai temi dell’iconologia e dell’iconografia nell’arte contemporanea, della progressività e del paragone delle arti, dell’interazione fra spazi semantici e i tempi della sintassi, così come al tema di una riflessione critica sull’estetica, a fronte delle poetiche degli artisti, e di una pessimistica considerazione sulla possibilità di un senso della storia, che ha già in sé la liquidazione della tradizione iconografica. Altra grave difficoltà nella critica d’arte: l’idea diffusa di una autoreferenzialità nelle arti figurative, che comporta l’identificazione di arte e critica. È la crisi del linguaggio pittorico che consente la generazione di un nuovo mercato dell’arte e il cosiddetto ‘sistema-arte’. L’analisi sulle differenze fra arte astratta, concettuale, informale, mentale ed una riflessione generale sul linguaggio figurativo alla luce delle neuroscienze chiude la riflessione sui problemi teorici della critica contemporanea.


Alberto Gianquinto (Pirano, 1927) allievo di Ugo Spirito e di Guido Calogero, è stato docente alle Università 1 e 2 di Roma. Ha approfondito studi di economia a Berlino, Otto Suhr Institut. Pubblicazioni principali in campo scientifico: La filosofia analitica, Feltrinelli 1961; Metalogica e calcolo, La Goliardica, Roma 1966; Critica dell'epistemologia. Per una concezione materialistica della scienza, Marsilio, Padova 1971-19802; Il realismo e l'"oggetto" scientifico (con G.I. Giannoli), Roma 1982; Storia e scienza, Milano 1985; Introduzione alle metodologie della scienza (con G.I. Giannoli), 1992; Sul senso della storia, Odradek, 2009. Ha curato inoltre il documentario Renzo Vespignani. Ricordare con le mani (regìa G. Latini). Molta la sua attività in campo artistico-letterario (in proposito vedi), dove ha vinto un premio nazionale di poesia.

venerdì 24 gennaio 2014


La Clessidra
MARIO MORETTI
Opere inedite
a cura di  Carla Mazzoni
Galleria Cassiopea
Piazza Verbano 8
Moretti, pittore della luce, dei deserti assolati, delle improbabili radure erbose perse in un’atmosfera più metafisica che reale, ha dedicato gli ultimi due mesi alla matita e al bianco e nero.  Veri piccoli capolavori in cui il riferimento naturale perde i suoi connotati nella luminosità del bianco e nel lento e insistito tratto scuro della matita, elaborati con tenace lentezza come a comporre la trama di un tessuto. Una volta di più Mario Moretti ha lasciato che l’opera fosse l’epifania del suo sentire e ci rende incantati e muti come sempre accade quando l’Arte indaga realtà e mistero.
Inaugurazione Giovedì 19 dicembre ore 17
La mostra resterà aperta fino all’8 Gennaio 2014
Tel. 39.347.3735109





La Clessidra

Sembra che Il tramonto delle ideologie del secolo scorso e la depressione economica abbiano generato crisi d’identità, diffuso senso di smarrimento, mancanza di riferimenti, di certezze, di ideali.

Immagino che il senso ultimo della vita di un gatto potrebbe cogliersi nella sua stessa esistenza. Si realizza vivendo secondo natura. La vita potrebbe avere senso in se, ma quali sono i confini? L’uomo ha una consapevolezza. La cultura è nella sua natura, così come il sentirsi parte di una collettività. A dare senso e gratificazione è l’armonia con se stessi, con la vita, con il mondo, con l’universo. Malgrado l’assenza di radici vere e proprie, non siamo così diversi da una pianta. Sentirsi integrati e parte di un tutto più vasto di noi è una condizione vitalizzante essenziale al proprio benessere.

Moretti disegnando si relaziona alla natura. Della natura che contempla e disegna cerca di cogliere il senso profondo: la forma, la luce, l’essenza, la sensualità, la presenza, la musicalità, il divenire… segue il dialogo tra il particolare ed il generale, tra il ciuffo d’erba e la luce che lo avvolge, tra la duna e lo spazio infinito, tra l’aurora e il silenzio… spaesando lievemente il soggetto dal suo contesto naturale, dona volta per volta al suo frammento di paesaggio una presenza al contempo irreale e assoluta. Il particolare si fa protagonista, acquisisce una maestosità universale. La sua strada o la sabbia della sua duna sono lì a testimoniare nel silenzio sospeso l’impercettibile divenire del creato.

Gabriele Bianconi
www.gabrielebianconi.info


I luoghi dell’anima


Disegni a matita. Piccolo formato. Indubbiamente vicini all’opera pittorica di Mario Moretti eppure, profondamente diversi se non ci si lascia ingannare dal tema con cui l’artista si misura da sempre.  Una diversità che fa apparire perfino stridente il confronto con la pittura, paradossalmente accecante nel colore tendenzialmente monocromo. Interrogarsi su questo è già un inizio per riflettere sul nuovo momento creativo di Moretti e rendersi conto di quanto il disegno non sia un approdo recente, semmai la riappropriazione di un antico amore cui ritorna con entusiasmo, con passione. Non di una tecnica, assolutamente no, perché non c’è virtuosismo, compiacimento, ma piacere del segno, del suo manifestarsi dando luogo  alle “piccole cose”.
Se nelle opere del passato la visione appariva, in qualche modo, condizionata dal rapporto mentale con la realtà, oggi quella visione si connota invece come presenza, come attimo di vita. Poco importa quale sia l’oggetto in primo piano o il riferimento paesaggistico, ciò che conta è la capacità di rendere reale l’impalpabile, quella condizione di spazio-tempo dove c’è l’onnipresenza del tutto.
E se la creazione di un artista è speculare all’artista stesso, questi disegni rappresentano appieno Mario Moretti.  Su tale specularità si fonda l’autenticità della sua ricerca, né potrebbe essere altrimenti perché quell’opera è necessaria al suo modus operandi. Se così non fosse quell’opera sarebbe altro, ma non arte. Una specularità che in questi ultimi lavori si manifesta con grande energia nella semplicità, nell’ordinarietà del gesto, nella matita che crea sulla superfice una vibrazione che è intima partecipazione a tutto ciò che è, più che a ciò che accade.
Tutto è energia, tutto è suono nel grande spazio cosmico. Non vuoto, ma assoluta e misteriosa presenza che l’apparire delle cose rende tangibile. E nel silenzio, tutto vive. Non c’è attesa, sospensione, ma ascolto. Una condizione che l’assenza di pigmento cromatico rende più intensa. Il pensiero va a Mark Rothko, alle sue stesure grigie dopo il dominio del colore. Se in Rothko il passaggio segna l’epilogo della sua arte, per Moretti è l’epifania, il rinascere alla vita.
Anche il ritornare sempre sullo stesso tema ha un suo significato. Mette a nudo l’artista e il suo processo. Moretti è ciò che dipinge, è ciò che disegna. Il silenzio che connota le sue opere è il suo silenzio interiore.
L’arte non è pensiero, è processo in atto. Quando non c’è identificazione con l’opera, quando la centralità dell’artista viene meno, l’opera è. Moretti non cerca, si tace. Non è interessato al divenire, ma soltanto al momento presente, perché il momento presente è il nuovo, è il nascente.
L’arte è viva quando sfugge alla definizione. Quando il pensiero non può ricondurla  del tutto alle categorie del conosciuto, la visione si fa esperienza in atto del non essere nell’essere. Moretti non rappresenta pur raffigurando, guarda oltre. E tra sé e quell’oltre non c’è frattura. I suoi luoghi sono i luoghi dell’anima.



                                                                                                                 Ida Mitrano