La cosa in sé tra rito e discontinuità.
La cosa in sé
fu l’oggetto mentale che Kant utilizzò per provocare se stesso e i filosofi del
suo tempo. È come se avesse detto loro: “per quanto voi vi sforziate in realtà
il vostro è solo un esercizio interpretativo attorno alla cosa in sé, perché, essa non rientra tra gli oggetti della nostra
possibile conoscenza, anzi, si situa provocatoriamente al limite di essa, la
percepiamo, ma non possiamo conoscerla”.
Kant percepiva la
cosa in sé come “noumeno”, cioè come oggetto del puro pensiero che lui
poneva in irrisolvibile contrapposizione con il “sensibile”, cioè con l’oggetto
della sensibilità. Poi Kant incontra Hume che, per sua stessa ammissione,
l’aiuta a superare una certa rigidezza dogmatica.
Io penso che kant, forse, da quel momento inizi ad
ammettere nel suo intimo che la cosa in
sé aveva analogia più con la vita che con il pensiero e che, pertanto,
contenesse in sé e nel suo misterioso essere, anche gli effetti dell’azione
della casualità e dell’inconsapevolezza. Credo che la cosa in sé fosse percepita come una sorta di mistero che lo
provocava, perché di certo provocava la sua necessità profonda di analizzare e
definire. Penso che Kant cogliesse una qualche analogia tra
l’autoreferenzialità compatta della cosa
in sé e l’autoreferenzialità della vita con la sua imprevedibilità che si
oppone al binario oleato del pensiero, il quale, invece, persegue il principio
di “ non contraddizione”, come guida all’affermazione.
Forse, è proprio da questa percezione dello spaesamento
di Kant davanti alla cosa in sé che,
per quel contagio, mi sembra di rivivere in modo emotivo, anche oggi, la
bruciante analogia tra la cosa in sé e
l’arte così indefinibile, eppure così concreta.
Voglio dire che Kant ti propone attraverso la sua opera
un terreno di incontro, a tal punto oggettivo che, in qualche modo, lui come
persona diventa del tutto secondario. Nel suo incontro con la cosa in sé, invece, improvvisamente e
sorprendentemente, ti dice qualcosa su di sé, quasi arrossendo assieme alla sua
lucidità filosofica.
Insomma, titolando con la cosa in sé la direzione di un percorso esperenziale per cercare di
reidentificare una tipologia dell’arte oggi, è come se recuperassimo quel
sottile smarrimento di kant, che ha provocato tante domande.
Certo, oggi quel discorso ci viene imposto dalle
cose stesse. Oggi, quella che fu la coscienza dualistica ci va scivolando alle
spalle e noi stiamo reintercettando il comportamento dell’essere. Se, infatti,
parliamo con un numero alto di persone, dopo che hanno assistito ad un evento,
ci rendiamo conto che hanno soltanto bisogno di comunicare il grado del loro
coinvolgimento, ma non hanno più la necessità di descrivere o decodificare, ciò
che ha prodotto in loro quel coinvolgimento. Ti dicono solo: “bello, commovente,
lo consiglio”. Ecco, questo è uno dei tantissimi segni che ci indicano che
stiamo riconfluendo nel comportamento psichico che fu dell’essere prima che si
determinasse in noi la coscienza dualistica. Coscienza che fu necessaria per
avere consapevolezza di ciò che sapevamo e per identificarne i significati.
Certo, quell’antica tipologia dell’essere era agita
dall’istinto di sopravvivenza ed era confortata dalla certezza che proveniva
dal tempo ciclico della natura e dal suo respiro che rendeva, in qualche modo,
prevedibile il futuro.
Oggi rientriamo nell’essere, ma spaesati, perché ci
siamo allontanati dall’automatismo tranquillizzante della natura e perché il
sociale ci ha tradito. Inoltre, è possibile che la perdita del centro e la sua
sostituzione con infiniti centri che non si relazionano con loro, sia un tratto
importante che connota la fine della coscienza dualistica? È possibile che il
giudizio venga sostituito soltanto dal sentire dell’essere?
Comunque, reintercettare il comportamento psichico
dell’essere significa ripercepirsi originanti e non più come avveniva
nell’egemonia della coscienza dualistica, percepirsi derivati e significati da
narrazioni.
Oggi, per la mutata articolazione dl tempo, a causa
dell’abnorme aumento della velocità degli scambi, si determina un tasso di
relativizzazione che relativizza ogni certezza. Nel contempo, si è rotta la
relazione di continuità contestuale tra pensanti e ciò che è stato già pensato
e non perché questo già pensato sia
lontano nel tempo, ma solo perché è precedente. Ciò che ci precede, oggi, per
l’alta velocità con cui la nostra mente scambia, si determina come già concluso. È come incontrare l’ex
partner dopo il divorzio. Qualsiasi storia possa rinascere sarà, comunque,
un’altra storia. Il nostro passato può, ormai, vivere in noi solo come
stratificazione nel nostro organismo psico-fisico e per l’inerenza emozionale
che esso esercita sul nostro presente in atto. Abbiamo fisiologgizzato la
storia.
Comunque, la provocazione di Kant sollecitò infinite
riflessioni e persino un percorso evolutivo del pensiero che è come se
anticipasse alcuni caratteri del tempo che stiamo vivendo oggi. Mi riferisco
alla grande riflessione di Hume attorno ai limiti della mente umana con cui
essa percepisce ed interpreta la relazione tra i fenomeni. La mente umana
fondata sui principi di inizio e fine e condizionata dalle rappresentazioni
dello spazio e del tempo, tende a considerare la relazione tra gli oggetti come
indotto di un rapporto di causa effetto e, comunque, entro una successione
temporale. Invece, secondo Hume si tratta solo di una forma di coesione che la
fenomenologia nascente definì, successivamente, come “intersoggettività
originaria”. Questa identificazione causale che ritorna a considerare la stessa
“vivente soggettività” e l’uomo
stesso, entro una sorta di automatismo sino ad “entificare” la sua stessa
psicofisicità, mi sembra proponga un tratto importante che anticipa alcuni
caratteri del nostro tempo. Soprattutto quando Husserl identifica il movente
ottimale del motore connettivo tra fenomeni nelle cose stesse e nella stessa “vivente soggettività”, considerata causa
potente soprattutto nella fase “precategoriale” quando essa è originante.
Ancora una volta è dalla cosa in sé che
nasce, forse, il contenuto motivazionale originario. Penso non solo a quello
del sé, ma anche al contenuto che guida l’associarsi dei soggetti ormai
svincolati dai contenuti della dimensione pragmatica della società.
Infine, causa e nel contempo conseguenza di tutto
ciò, la vita va imponendo la propria centralità e va imponendo nei circuiti
mentali di questo assoluto presente, la drammatica questione della propria
continuità. La vita diviene la committente del pensiero che perde autonomia dal
qui ed ora del presente farsi della
vita. E’ talmente forte la suggestione di questo spostamento che l’Epoca
precedente, quella dell’egemonia della coscienza dualistica, ci appare lontana
e persino patologica. Era come se si pensasse altrove da dove si viveva, mentre
oggi si pensa dove si vive. La cosa in sé
rappresenta il saldarsi simbiotico della vita con il pensiero. C’è da dire
anche che questo tempo ha visto compiersi un doloroso e inedito divorzio tra
due importanti dimensioni psichiche della personalità. Quella pragmatica ha
trionfato ed è divenuta forma sociale della dimensione collettiva. Invece, le
dimensioni introspettive della personalità, che fino a poco tempo fa avevano
collaborato con la dimensione collettiva della società, sono state esiliate
dalla vita reale da quella stessa collettività. La collettività sociale è oggi
corpo pragmatico della mente; conia i termini della sopravvivenza dello “status
quo” e del corpo, come oggetti del mercato globale alienato dallo strabismo
della finanza. Invece, l’attività introspettiva, soprattutto quella delle
personalità più giovani, si va internando in internet come occasione di
confessioni intime tra solitudini. Ma questa esperienza non viene poi riportata
negli scambi reali, e così la personalità appare scissa. È come se la mente
complessa si fosse ripiegata verso il profondo della personalità ed è come se
la stessa immagine dell’uomo fosse naufragata nel vuoto della mente. Il corpo,
invece, per la fine dell’interazione tra polarità antitetiche a causa di
quell’inedito divorzio di cui ho fatto cenno, si presenta oggi come assoluto
oggetto del tempo ciclico della natura. Abbandonata la sua tradizionale
interazione con l’immateriale, il corpo oggi estende la propria influenza
fisica e concettuale sull’intera società. Si potrebbe dire che oggi è la luna,
pianeta privo di luce propria, che illumina le stelle. Ma il corpo diviene
parte fondamentale del nostro rapporto con la verità.
È sempre più evidente che noi siamo la verità e non
le nostre supposizioni di essa. La verità siamo noi e il nostro pensiero
l’interpreta. Noi siamo la verità, perché in noi stessi e mediante il nostro
essere architettura psico-fisica, siamo articolazione di una verità necessaria
alla vita. Al contrario, la nostra potenzialità intellettiva è lo strumento
provocatorio di un’eterna domanda alla quale “noi”, che siamo in noi stessi la
verità, diamo risposta. È come se il nostro processo mentale, sollecitato dal
flusso informativo che proviene dal permanente trasformarsi della realtà,
sollecitasse a propria volta il processo evolutivo della cellula. È il processo
biologico che stimolato dalla cultura produce le nuove sintesi che sconvolgono
i codici precedenti e, solo dopo, la cultura si adegua a quelle nuove sintesi.
L’arte finora
si è avvalsa del contributo di quelle attività della psiche mai
recensite dalla storiografia in quanto ritenute esterne al territorio psichico
di cui la coscienza consapevole, in qualche modo, si è sempre resa
responsabile. Del resto la convinzione che sia soltanto la coscienza
consapevole la responsabile di ogni evento fu al centro di quella coscienza
dualistica che ha dato vita a grandi esperienze come l’illuminismo o il
positivismo. Oggi avvertiamo che il nostro essere straripa oltre il perimetro
in cui lo limitava l’ispirazione della consapevolezza. Insomma, ci rendiamo
improvvisamente conto di essere responsabili non solo di ciò che sappiamo di
noi, ma anche di ciò che di noi non sappiamo. Dunque, noi siamo un’unità che
contiene in sé consapevolezza e inconsapevolezza ed è responsabile dell’una e
dell’altra.
Si va ampliando il perimetro delle responsabilità
della coscienza e quel famoso “pensiero laterale”, sempre attribuito agli
artisti e accettato dalla società solo come espressione del loro presunto
navigare nel “non senso”, oggi sembra acquisire nuova centralità nel nuovo
configurarsi storico della coscienza individuale e del “senso”.
Il fatto è che il superamento della coscienza
dualistica esalta l’essere e ci trasforma da derivati del “già pensato” in
archivio vivente e quindi ci rende padri del libro ed entità originanti. Di
conseguenza si trasforma il nostro rapporto con la cultura che per la fine
dell’autonomia teoretica del pensiero, si schiaccia sulla vita. Si azzera la
distanza tra pensare ed essere. Io non scelgo di pensare in questo o in quel
modo, ma io penso ciò che sono. È come se nel mio complessivo essere fossi
portatore di un sogno che sogna, il sogno che la mia coscienza percepisce. Per questo è come se si dovesse
interiorizzare un nuovo principio di relazione tra i fenomeni che non calcola,
non giudica, ma accade.
La cosa in sé propone e stabilizza quel superamento del
limite del tradizionale rapporto di causa-effetto e cede, con carattere
“istituzionale”, il comando del formarsi del senso alla coscienza alterata che
si tuffa nel mare profondo dell’intuizione.
Sono pittore e, oggi, mi appare più evidente come la
pittura sia l’immagine del pensiero ferito dagli acuminati indizi della vita,
sui quali la pittura fonda la propria funzione sociale. Da tutto questo deriva
la forza testimoniale dell’artista che non esprime opinioni, così come fa la
gran parte delle discipline, ma si dà, non definisce, ma propone, e ciò per un
imperativo del profondo. Questo identifica la natura della pittura come un
perno di contrapposizione a quei processi così detti creativi che oggi, spesso
applauditi, riempiono gli spazi espositivi.
Oggi come sempre, l’arte si pone come soggetto che
ha la necessità di reinventare l’arto della specie che la parzialità della
storia ha amputato.
Per concludere queste riflessioni inesaustive per
ragioni di spazio, vorrei sottolineare che la coscienza individuale diviene
l’unica depositaria dell’attività delle dimensioni introspettive della
personalità, ma esclusa dagli scambi reali della vita sociale, inizia a vivere
una nuova estensione della propria libertà.
Sarà il futuro a dirci se la produzione della
coscienza introspettiva degli individui saprà oggettivarsi utilmente nel corpo
collettivo del sociale. La cosa in sé è
un’icona, un oggetto mentale, che si apre alla continuità della vita e della
sua futuribilità.
La cosa in sé che
oggettivizza nella percezione della cultura di domani la nuova relazione tra
consapevolezza e inconsapevolezza, si va presentando come quell’impasto di
particelle di storia e di a-storia che è speranza del domani.
ENNIO CALABRIA