venerdì 10 agosto 2012

Neuroni specchio


ARTE E SCIENZA

Alberto Gianquinto


     Due sono i modi in cui vorrei potere non affrontare questo tema, perché entrambi, ben noti, anche ben poco possono offrire di nuovo all’argomento.

     I) Il primo è quello di presentare aspetti dell’arte, che, sconfinanti nel campo della scienza, offrono l’ovvia idea che ci sia un terreno usato in comune o, meno ovvia, l’idea che l’arte possa avere fornito, da un qualche dato momento storico in poi, aspetti d’interesse specifico per la scienza; o, viceversa, un modo di indicare aspetti della scienza che, per questi sconfinamenti, possano aver dato all’arte qualche spunto di sua pertinenza.

     Portiamo qualche esempio.
(1) Uno è il fatto che l’arte adoperi ed anzi abbia forse contribuito a far crescere le riflessioni sulla geometria (sia quella analitica – che consente di analizzare, attraverso coordinate cartesiane, le forme nel piano e nello spazio – sia quella descrittiva – che consente di rappresentare, attraverso costruzione, oggetti bi- e tri-dimensionali sul piano) e, in quest’ambito, contribuito ad allargare le considerazioni sulla prospettiva e sulle sue distorsioni (e penso a Maurits Cornelis Escher), o sulla proiezione e sullo scorcio (Andrea Mantegna, il Cristo morto di Brera, 1484 c.); o il fatto che l’arte abbia adoperato la raffigurazione per quanto riguarda certi eventi fisici (penso a Paolo Uccello, il Diluvio e recessione delle acque e storie di Noè, Firenze, Santa Maria Novella, 1447-48).
E questo vale non solo quanto alla pittura, ma anche nella musica o nella danza o nella poesia.
(2) Altro esempio è l’ottica della pura visibilità, dove l’arte è intesa globalmente – in una formulazione teorica – come operazione conoscitiva che si attua attraverso la ‘funzione’ visiva (Konrad Fiedler, filosofo e critico d’arte [1841-1895] – Hans von Marées, pittore [1837-1887] – Adolf von Hildebrand, scultore [1847-1921]); un punto di vista, questo, che va considerato anche con le sue propaggini applicative, indagate nella storiografia da Heinrich Wölfflin [1864-1945], dove rinascimento e barocco vengono intesi come forme universali, riferibili a coppie di simboli visivi contrapposti fra loro (per esempio, ‘lineare’ e ‘pittorico’, forma ‘chiusa’ e forma ‘aperta’, ecc.); una lettura interpretativa, questa, che richiama alla più recente opera critica di Gustav René Hocke (Malerei der Gegenwart. Der Neo-Manierismus. Vom Surrealismus zur Meditation, Limes, Wiesbaden 1975), dove questa volta è il manierismo ad essere preso come categoria artistica fondamentale e, con esso, la contrapposizione classicismo-manierismo (o classicismo-asianesimo). Anche qui: terreno usato in comune o anche riflessione e contributo fornito dall’una all’altra (scienza e arte).
E all’ottica aggiungiamo allora le illusioni ottiche, ancora una volta di Maurits Cornelis Escher, con le sue applicazioni di topologia all’arte (come: Il nastro di Moebius, esempio di superficie non orientabile studiata dall’omonimo matematico tedesco, poi ripreso ancora una volta in arte da Max Bill).
(3) E così possiamo rivolgerci alla intenzionalità espressiva di Alois Riegl [1858-1905] (cfr. Problemi di stile e L’origine del barocco a Roma) – dove si sostiene essere un Kunstwollen a rendere originale l’arte romana, nel suo confronto con quella greca, e non semplice imitazione di essa – e poi alla psicologia della percezione visiva (dunque a Ernst Hans Josef Gombrich [che assume la direzione dell’Istituto Warburg nel 1959]).
(4) E c’è, per finire, la fisiologia della percezione dei colori (cioè la ricerca di Hermann von Helmholtz [1821-1894]).
     Insomma: l’esempio più universale di tutto ciò è Leonardo, con i suoi studi e le sue intuizioni sulle proporzioni, sulla geologia e l’idraulica, sulla botanica, sulla fisica e sul volo, sull’astronomia, ecc.

     II) Il secondo modo su cui non mi sembra che valga insistere ora più che tanto, per quel che può offrire, è proporsi d’individuare un parallelo nei comportamenti, nelle procedure o, addirittura, nelle strutture del corrispettivo contrapposto ambito (arte o scienza).

     E portiamo anche qui degli esempi.
(1) Uno può essere l’introduzione nelle scienze – parallelamente alle teorie sull’intuizione artistica ed estetica – di concetti come l’intuizionismo di Leopold Kronecker e di Luitzen Brouwer nei fondamenti della matematica (contro il rigore formale di Karl Weierstrass e contro i numeri transfiniti e la teoria degli insiemi di Georg Cantor, con esplicite accuse di misticismo) e l’intuizionismo della teoria del tempo di Henri Bergson (quanto al tempo della durata nella coscienza, a fronte del  tempo spazializzato proprio della scienza).
(2) Altro esempio, nell’esperienza fenomenologia, l’intuizione eidetica, sostenuta da Edmund Husserl (cioè, la visione delle essenze, inseparabile dall’intuizione empirica dell’universale, secondo cui non si può distinguere  una visione particolare di rosso senza avere presente il senso del rosso, cioè la sua categoria universale).
(3) O ancora, più indietro nel tempo, l’intuizione pura della Critica della ragion pura di Immanuel Kant (cioè, la forma pura della sensibilità: in altri termini, lo spazio e il tempo nella rappresentazione di un corpo, tolta la sostanza, la forza, la divisibilità ecc.).
(4) E, per continuare – parallelamente alle teorie sullo psicologismo nell’arte – la psicologia a fondamento della matematica (secondo cui le leggi matematiche sono spiegabili su basi psicologiche – con derivazione dell’intelligibile dal sensibile e dell’ontologia dalla psicologia: John Stuart  Mill, Christoph Sigwart, Benno Erdmann, Johann Friedrich Herbart).
(5) E così il fenomenismo proprio dell’arte, parallelamente a quanto accade nelle scienze, riconducibile sempre ad enunciati riguardanti contenuti dei sensi. Secondo Ernst Mach, il mondo consiste di colori ed altro, che non chiameremo né sensazionifenomeni, ma elementi e questi sono oggetto della ricerca fisica, che è anche quello di fissare il fluire di tali elementi.
(6) Analogamente, parallelamente all’immaginazione nell’arte, l’immaginazione in geometria (p. es., la retta o le parallele, se usiamo gli assiomi di Euclide, richiedono modalità di costruzione delle linee, che sono intuite, cioè usate tacitamente come regole di costruzione. Secondo queste tesi, gli assiomi – come definizioni implicite – specificano cosa vada considerato come loro esempi.
(7) Ancora: pensiamo al concetto dell’analogia in arte e a quello dell’analogia nelle scienze, dove si tratta di rendere intelligibile ciò che non è familiare in termini di ciò che è familiare: questione, questa, che diventa un problema della ‘spiegazione’ scientifica.
(8) Infine un dovuto riferimento è alla sezione aurea. Questa è terreno comune effettivo, non di semplice e astratto parallelismo, di arte e scienza. In aritmetica, la sezione aurea φ = 1 + 1/(1 + 1/(1 + 1/(1 + … = (1+√5)/2 = 1,6180… ≈ 55/34   è il rapporto fra due grandezze disuguali, di cui la maggiore è media proporzionale tra la minore e la somma delle due; cioè: (a+b):a=a:b; ma vale anche che la minore è media proporzionale fra la maggiore e la differenza delle due; cioè: a:b=b:(a-b). Si deve notare che il numero che esprime la sezione aurea è irrazionale (cioè, non esprimibile sotto forma di frazione) ed algebrico (cioè è soluzione di un’equazione algebrica, vale a dire riconducibile alla forma P(x) = 0. Per esempio: √3 è algebrico perché soluzione dell’equazione x2 – 3 = 0;  oppure –2/7 è anch’esso algebrico perché soluzione di dell’equazione 7x + 2 = 0. In geometria, la sezione aurea è allora parte media proporzionale ‘b’ fra il segmento intero ‘a’ e la parte restante di esso ‘a-b’. Ma la sezione aurea è presente anche in zoologia, p. es.: in certe  conchiglie (nautilus), dove la forma a spirale è fatta secondo i numeri di Fibonacci (più precisamente: è data per approssimazione crescente, dal rapporto fra due successivi numeri di Fibonacci, cioè è data dalla sezione aurea φ. Cioè: lim per (nà∞) di F(n+1)/F(n) = φ ) Cosa sono i numeri di Fibonacci? Sono i numeri interi naturali ottenuti nella successione (di interi naturali) definibile per somma dei due antecedenti, una volta assegnati i valori dei primi due (quindi, dati 0 ed 1, il successivo è la loro somma 1, il cui successivo è la nuova somma 1+1=2, da cui la somma di 1+2=3 e di 2+3=5 e di 3+5=8 e di 5+8=13 e di 8+13=21 , da cui 13+21=34 e poi di 21+34=55, per fermarci ai primi 10 numeri di Fibonacci). Numeri, questi, dove la sezione aurea è l’approssimazione del rapporto fra due termini successivi della loro successione. Sezione aurea, che è presente in botanica: qui è la disposizione ‘a frattali’ degli elementi che compongono le foglie degli alberi a seguire la sezione aurea, la quale segue un diagramma logaritmico, analogo ai suoni di uno strumento monocorde. Ed è presente in astronomia, dove tale è la distanza dal sole, nelle proporzioni della successione dei pianeti interni o la distanza da Giove, nelle proporzioni della successione dei pianeti esterni (e dove la distanza Marte-Giove segna i confini dei due blocchi di pianeti). E ancora: sezione aurea nell’anatomia umana, reperibile nella struttura ‘a nautilus’ della còclea dell’orecchio. Infine, presente nella struttura della musica, seguita nella scala ben temperata da Bach, ed usata parimenti in pittura, scultura, architettura, la sezione aurea è al centro delle conoscenze esoteriche dell’antico Egitto, è un canone di bellezza estetica, specie dal ‘400, con Luca Pacioli e Albrecht Dürer, ma nota già ai pitagorici, che scoprono come il lato del decagono, iscritto in una circonferenza di raggio r, non è altro che la sezione aurea di tale raggio.

     III) Altro modo di affrontare la questione del rapporto arte-scienza è poi quello di cogliere quelle distinzioni che fanno di questi modi due terreni invalicabili l’uno all’altro: ma queste non sono né la creatività (che, sì, è diversamente fondata, ma certo non terreno specifico e invalicabile), né la misura (diversamente articolata, ma ben presente nella scienza e nell’arte), né – certo – i meccanismi percettivo-visivi o i processi cognitivi. Semmai, ma banalmente, lapalissiana è la diversità dell’attività produttiva: rappresentativa e grafico-simbolica l’una, conoscitiva, teorica e simbolico-formale l’altra.

     IV) Produttivo sembrerebbe invece l’approccio delle neuroscienze, in particolare nella scoperta della funzione dei neuroni specchio (dovuta a Giacomo Rizzolatti e Vittorio Gallese) – neuroni, questi, che sono una realtà della fisiologia (la neuroscienza) e riguardano sia la funzione nella scienza, sia anche la loro funzione nell’arte, dove s’è visto che essi spiegano come mai ci si possa immedesimare in un’opera, creativa come l’arte o creativa come un’indagine scientifica.

     Terreni d’esempio:
     Emozioni scaturiscono da nostre azioni; e sentimenti influenzano i nostri movimenti: una ipotesi, che spiega e aiuta a capire il potere empatico, sia delle immagini in quanto tali (per il desiderio di impossessarsene), sia dei comportamenti (per il desiderio di imitazione) nella scoperta e nella ricerca.
     Così come Il grido di Edvard Munch può comportare una voglia di urlare o l’Apollo e Dafne di Gian Lorenzo Bernini una voglia di toccare, altrettanto accade, quanto a partecipazione di emozioni e a sentimenti d’entusiasmo, per la relatività generale e le ipotesi teoriche di Einstein: un potere empatico di partecipare, sia delle immagini (oggetti, cose), sia nei comportamenti.

     Con ciò si deve tenere anche presente che questa scoperta dei neuroni specchio e tutta la teoria neuroscientifica, sia essa applicata all’arte, sia applicata al linguaggio della scienza, non può spiegare né il complesso dell’arte e della sua validità (la cosiddetta ‘bellezza’ d’arte) senza un’ipotesi di creatività linguistica e senza una spiegazione storica e sociologico-culturale dell’apprendimento (considerando essa soltanto stimoli nervosi), né può spiegare l’insieme della scienza e della sua funzionalità, senza un corrispondente linguaggio scientifico e le spiegazioni sull’apprendimento e la funzionalità storico-culturale su di esso.

     I neuroni specchio inviano messaggi  al sistema limbico (al sistema emotivo), aiutando a sintonizzarci su sentimenti ed emozioni della persona/figura che guardiamo o dell’azione/progetto e di certe esperienze comportamentali che vediamo fare e che, empaticamente si riflettono sul nostro stesso comportamento.

     Possiamo forse azzardare l’ipotesi che, dietro un giudizio di gusto (il giudizio estetico, secondo Kant) c’è sempre l’operazione implicante il gusto (sia esso per quello che intendiamo per bello, sia per quello che intendiamo per scientificamente funzionale).
     E più nascosto ancora c’è l’istinto biologico di  una capacità funzionale delle mente di creare un linguaggio mentale (artistico o scientifico), cioè costruito su un terreno innato, ma individualmente adattato per selezione naturale, ma anche appreso attraverso sintonizzazioni sinaptiche, e che sinteticamente possiamo rinviare al kantiano giudizio di gusto.

     Possiamo più semplicemente dire che una relazione ai colori è un’esperienza (estetica), che spiega perché rispondiamo meglio ai colori che non al bianco/nero; e altrettanto, che la relazione alla compattezza di una formula come E=mc2 ci entusiasma più d’ogni altra, non altrettanto storicamente risolutiva ed esplicita.

     Tutto ciò non fa più parte di una ‘estetica’ unitaria, ma appartiene, piuttosto, da un lato, ad una implicita poetica  individuale e, dall’altro, ad una altrettanto individuale conquista tecnico-funzionale.

     Possiamo riflettere su questo risultato.
     Il riferimento neuroscientifico ci disancora definitivamente dal problema hegeliano di una estetica che, dentro una teoria generale dello spirito e del suo sviluppo storico, muore ad ogni svolta d’epoca storica per rinascere con i caratteri del tempo presente (Sergio Landucci). Così anche ci si allontana da un’idea di dissoluzione dell’estetica nell’antropologia, nella sociologia o nella psicologia. Altri (di ordine anti-metafisico) sono forse i motivi per lasciare l’estetica filosofica e approdare alle singole poetiche.

     E, procedendo ora oltre i temi posti dalle neuroscienze, se l’arte è stata indagata come specifica forma di linguaggio simbolico – da Ernst Cassirer e Susan Langer – e se questo deve (o dovrebbe) anche valere per la scienza; e, di nuovo, se l’arte è stata vista come coscienza anticipatrice di un fine utopico (Ernst Bloch, Walter Benjamin, Theodor Wiesengrund Adorno, Herbert Marcuse), e se anche questo deve essere visto (ed è stato visto) valere anche per la scienza (si pensi al mito settecentesco del progresso, al positivismo, ecc.): perché allora non applicare alla scienza il tema di John Dewey (che egli chiama estetico) del momento fruitivo dell’esperienza nella arte (senza scopi ulteriori quest’ultimo, ricco di scopi l’altro, ma solo in quanto di funzionalità applicata)?

     Se, come dice Gianni Vattimo, dopo Hegel, l’interesse estetico s’è spostato sulla categoria dell’apparenza, che vede la realtà sotto il segno del simulacro (Friedrich Nietzsche, Martin Heidegger, Walter Benjamin), questo tema non riguarda più la scienza, perché è purtroppo vero che, nel presente storico – oltre i punti di contatto che abbiamo cercato e voluto individuare – fra arte e scienza (ma non solo) è anche massimo il divario. Dopo la distinzione di Platone fra episteme e doxa (distinzione, con cui nasce l’epistemologia), il percorso della riflessione filosofica sulla storia del pensiero ha (al di là dei vari posteriori rabberciamenti di fenomenologia ed ermeneutica) la sua vera conclusione con l’Introduzione alle scienze dello spirito di Wilhelm Dilthey (1883) e con la conferenza di Wilhelm Windelband, Storia e scienza naturale, del 1894, dove si cristallizza e si formalizza la distinzione e la separazione, ancora imperante fra scienze dello spirito e scienze della natura. 
     E vale, infine, precisare che, se l’arte appartiene alla storia della cultura (secondo Jacob Burckhardt) o dello spirito (secondo Max Dvořàk) – ma questo vale anche per la scienza – essa stessa (arte), come d’altronde la scienza stessa, non sono (per il fatto di appartenervi) storia della cultura o dello spirito.

lunedì 6 agosto 2012




Alberto Gianquinto


Alessandro Sbordoni. Musica come ‘fare’.

Oltre la tradizione aprioristica delle regole compositive.

 

        In un precedente scritto[1], riferendomi alla semantica e alla sintassi della musica, mi richiamavo alla svolta conclusiva di un’epoca, prodottasi con la radicalizzazione di Schönberg e della scuola viennese. L’attacco alle ormai secolari regole dell’armonia e della composizione veniva però condotto, anche da tutti gli epigoni, con la costituzione di altrettante nuove e ancora più rigide norme. Questa consapevolezza ha portato alla contestazione degli esiti, delle soluzioni e dell’impostazione stessa di tutto il fenomeno viennese, già nelle ipotesi di lavoro di Franco Evangelisti e nel gruppo di Nuova Consonanza. Alessandro Sbordoni è da considerare un punto di riferimento di questa alternativa, proprio per la sua radicalità: non si trattava di azzerare quanto era stato fatto nella musica, ma di superare ed eliminare il relativo sistema rigido delle regole; si trattava di ripartire dall’idea di musica come puro e semplice ‘fare’, un fare insieme sonoro, nel quale la regola nasce contestualmente, quale ineliminabile prodotto gestaltico.
        Un riferimento teoretico evidente è rintracciabile nella lunga riflessione filosofica di Johann Gottlieb Fichte sulla Dottrina della scienza, condotta e sviluppata dal 1801 agli anni 1811-13 sul tema della autoriflessione attorno alla relazione conoscitiva io-oggetto (conosciuto) e sul fatto che questa operazione autoriflessiva è un ‘fare’ (eine Tathandlung): così in musica la relazione del suono significante al suo significato (il conosciuto) è autoreferenziale, perché il suono non significa altro che l’emozione con esso significata. Dunque, questa autoriflessione sulla ‘conoscenza’ (sonora, musicale) del significato è un atto pratico: sapere è saper fare[2], musicare è ‘fare’ musica. Chiaro è anche il rapporto di questa impostazione filosofica con l’operazionismo[3]. Non si può parlare allora di musica di ‘ricerca’, come  è il caso invece per tutto l’approdo neo-regolativo che fa seguito alla teoria dodecafonica: la musica vuole essere ora assolutamente vicina all’improvvisazione (e dunque anche a gran parte del modo di fare della musica jazz): coglie se stessa nel suo farsi e, per la tendenza naturale alla forma (Gestalt), le regole che usa sono provvisorie, locali e non-universali. Come dice Sbordoni, la differenza fra la composizione musicale tradizionale, compresa anche quella dodecafonica, fino alle manipolazioni elettroniche, e, viceversa, quella che si vuole proporre è tutta fra visione ‘utopica’ della musica (dei primi) e visione ‘profetica’ (dei secondi); e Sbordoni, già dagli anni 1977 e seguenti, assieme a Guaccero e a Mario Schiano, genera su questa traccia: si tratta di non cedere alla ‘sindrome viennese’, di non di cercare nuovi suoni nella direzione di arricchimenti delle serie tonali verso quella che sarà la cosiddetta “serialità integrale” di Boulez, a cominciare (partendo dall’ottava dei 12 semitoni) dai 24 microtoni di Busoni, per giungere alle esasperazioni microtoniche della Studie II di Karlheinz Stockhausen e della musica elettronica; si tratta invece di integrare lo spessore delle sonorità nello stesso contesto autoriflessivo, di generare le complessità ‘impure’ dell’area timbrica dei suoni (cercata e altrimenti raggiunta, nel materiale piuttosto che nel tipo di scrittura, da György Ligeti): generarla, nel percorso del ‘fare’ creativo, prima di ogni cristallizzazione formale, regolativa e a priori, delle serie sonore e timbriche.
        Ecco allora il Sirius per bayan e orchestra (2009)[4], che, confermando l’ottava nel suo arco di semitoni, genera la sua composizione in un gioco di unisoni in lotta fra loro, che si alterna a cicli di dodici battute con sei accordi (due ciascuna), fino alla successiva sovrapposizione del gioco degli unisoni e dei cicli, dove allora entra in gioco il ritmo (terzo ‘attributo’ fondamentale del linguaggio, assieme al suono e al timbro. Come già ebbi a dire, nasce in tal modo una forma, ma affatto precostituita in  struttura prima della sua creazione operativa e destinata invece ad estinguersi come tale subito dopo la sua creazione: tutto è concentrato e concluso nella prassi operativa dell’insonorazione, a partire dal gioco dell’unisono del bayan, della sua espansione ad altri suoni, del suo ritornare e del suo movimento, fino all’apertura al ciclo orchestrale, che sblocca la sensazione di chiusura del movimento, lascia affiorare il ritmo entro il gioco dei suoni e dei timbri sonori, si richiude generando la dominante atmosfera di implosione delle forme musicali storiche.
     Questo attuale punto d’approdo è un percorso che si sviluppa e si prepara nel tempo, appunto dagli anni’70, ed i cui punti più significanti si possono indicare in questa sequenza:
Angelus novus (1987, per orchestra, in memoria di Italo Calvino; forma ciclica, “cosmica”, con richiamo alle Cosmicomiche) – Riflessi per sei strumenti e grande orchestra (1985) – Fantasie della lontananza (sei canti da Emily Dickinson, per soprano e pianoforte) – Il fiume e il mare (1992, per vcello e clarinetto basso, per la morte del padre; il titolo si riferisce al ‘Profeta’ di Gibran) – Durch die Liebe allein (1990, per orchestra; progetto “cartoline a Mozart”; titolo da un verso del libretto del Flauto Magico; nota perno mi bemolle magg., tonalità principale del Flauto Magico) –  De lumine (quartetto d’archi Bernini, da Terre dell’utopia, testo di Alberto Gianquinto) – Virgo (2003, per clarinetto basso e bayan) – ADCE (2004,  per bayan) – Meine Freude (2008, per bayan) – Janus (per 2 pianoforti e orchestra) – Jekyll (dramma musicale con fisarmonica concertante, testo di Lidia Ravera) – Sirius (2009, per bayan e orchestra) – Improvvisazioni (con il flauto di Fabbriciani).
        Volendo seguire un po’ a ritroso questo percorso, possiamo ricordare che, nella prima delle Duineser Elegien, Rilke si chiede: «Ma  chi, se  gridassi,  mi udrebbe, dalle schiere /  degli  Angeli?  <...> Voci, voci. Ascolta, mio cuore. come soltanto i Santi /  ascoltarono un giorno <...> il soffio ascolta, / l'ininterrotto  messaggio  che  dal  silenzio si crea»[5].  Non ci sono, forse, migliori  parole  per capire  la provenienza, il senso ed  il valore anche  teorico  della musica di Sbordoni: Agnus I. Im Absprung, lavoro che risale al 1995, riprende, ancora più consapevolmente ed esplicitamente  che  nei  precedenti, il tema del silenzio  e  del  messaggio speciale che dal silenzio scaturisce, dove gridare non ha ascolto e  prima di tutto occorre imparare ad ascoltare. È una  lettura  di Rilke, ma del tutto innovativa, dove non si sottolineano i significati espliciti  e  noti, fra Kierkegaard e Nietzsche,  della  tematica esistenziale, della critica al tempo presente e al mondo tecnico-industriale, bensì quelli, più profondi, del valore che la parola  (il  suono) deve assumere, in un mondo dove tutto è rumore e dove si è perduta la capacità d'ascolto. Né è casuale che la poesia di  Rilke sia ‘innovativa’ proprio nella ricerca di valori semantici  nuovi della parola; rinnovatrice, anche, per la consapevolezza del peso che  quella ricerca viene ad avere sulle  strutture  sintattiche, in cui si perde la cristallizzazione aprioristica delle regole. Semantica e sintassi, come nuovo più profondo approccio al  tema, classico ormai, ma anche superato, del rapporto contenuto-forma. Un rapporto, che gioca anche a ritroso, nella forza della sintassi ad imporre a sua volta, appena creata, una nuova più pertinente ricerca sonora-semantica, che rende impossibile una regolazione cristallizzata della configurazione sonora appena generata. Per riaffrontare il problema  della comunicazione,  per  dare  un oggetto che  possa  essere  anche davvero ascoltato, rigenerando dal rumore la condizione  teoricamente  preliminare del silenzio, occorre «uno ‘sguardo’  tanto intenso  da animare la marionetta»[6]. Questo è il vero  problema: lessicale, di scelta di vocabolo (o di suoi aggregati), che strettamente s'appoggi alle condizioni e alle innovazioni grammaticali e sintattiche, prima di ogni aprioristica cristallizzazione formale: unità, dunque, che garantisce e tiene lontano dallo slittamento nello strutturalismo di radicali scelte espressionistiche o, sul versante  lessicale-sonoro,  in una sterile ricerca  di sonorità pure e definitive. E  questo è il punto teorico su cui Franco Evangelisti  insisteva; con questa previsione: «procedendo per la via  impostata sulla  dimensione emozionale weberniana, che valorizzava  sempre più la brevità là dove la pausa allargava con sempre maggior preoccupazione il vuoto, si sarebbe giunti in maniera inesorabile al  silenzio»[7].
         Quest'analisi vale come  punto d'arrivo della controtendenza musicale contemporanea e di partenza verso un nuovo modo sonoro, che, per non cadere nella "sindrome viennese" – che Sbordoni individua in quella musica[8] – ha bisogna di un Absprung, di quel ‘balzo’ rilkiano[9], in cui si raccoglie  la  freccia che la corda regge per superarsi, per essere oltre se stessi. Per comprendere  il senso di questo balzo, possiamo parlare di un’altra direzione del significato della musica, al di là di ogni precostituzione di regole d’armonia e composizione, nel momento in cui la riflessione giunge a separare ricerca costruttiva, strutturale, da sonorità espressiva. Massimo Mila, per esempio, occupandosi del tempo e della memoria, in rapporto alla musica, e quindi del linguaggio musicale, perde l'occasione di una lettura di Goethe, che va in tutt'altra direzione, offrendo al contrario un'interpretazione attualistico-idealistica  e cita: «non esiste un passato che si debba richiamare col desiderio, esiste solo un perpetuo presente, che si foggia con gli elementi potenziali del passato»[10]. Goethe non dà alcun senso "attualistico" a questa frase; intende piuttosto il fatto che il ricordo e l'immaginazione generano il passato e il vissuto secondo procedimenti  che, diremmo oggi, non sono "reviviscenze di sensazioni"  (nel  senso della  critica sartriana alla psicologia empiristica  di  derivazione humiana di Broca, Charcot e altri), ma secondo procedimenti che sono invece possibili perché mettono in movimento un  bisogno di adeguamento ad uno stato della mente, attraverso un'opportuna parallela ricerca semantica, il più possibile adeguata all'idea o, meglio, all'oggetto (operazione mentale) dell'immaginazione  e del ricordo: immagine sonora, visiva, eidetica che sia. Da questo punto di vista  è assai poco comprensibile la critica di Mila al segno, in nome della sintassi: poco  comprensibile, se non alla luce, appunto, d'una sindrome viennese. Quando si rivolge a Strawinsky, a sostegno della tesi, trova che nella  sua Poétique musicale, «ogni musica, cioè ogni nota, a seconda della sua posizione armonica, non è che un seguito di slanci convergenti verso un punto definito di riposo»[11]. Ma questa tensione, occorre dire, non è meramente sintattica, semplicemente perché  è già  la "posizione relativa" quella che assegna valore  semantico alla  nota, così come alla parola e all'immagine. Il punto non  è quello di cercare la coerenza interna (la logica sintattica) della  musica nell'esperienza vissuta (che è un problema diverso, di Gestaltung), ma quello di  riuscire  ad esprimere  ricordi e immagini mentali, secondo valori semantici adeguati, nell’immediato fare, che riflette l’epistemologica considerazione del rapporto autoreferenziale di significante e significato sonoro. E questo richiede insiemi sonori e sequenze non  qualsiasi. La scelta semantica (nello spazio sonoro) si valorizza nel contesto  sintattico della creazione immediata (del ‘fare’, cioè nel tempo della musica), ma più in  un contesto che in un altro; è così che una struttura può essere più adeguata d'un'altra a cogliere il valore e lo spazio semantico  voluto dalla  memoria o dall'immaginazione. La  sintassi,  dispiegandosi nel  tempo oggettivo, genera una sua temporalità, che è tempo proprio della sintassi, nel tempo oggettivo ed è funzione della diversa disposizione degli elementi linguistici.  Criticare la musica quale linguaggio, per il fatto che il linguaggio sarebbe segno semantico e dunque avrebbe valore pratico-strumentale  (in quanto  simbolo  di un simbolizzato che dovrebbe essere fuori  della  musica), significa  dimezzare, azzoppare la musica della  sua  spazialità, per voler restarvi dentro:  ma ciò che, per così dire, sta fuori (e che  il  segno sonoro intende trasmettere) è proprio  ciò  che  si vuole dire, la propria immagine musicale, la memoria autoreferenziale, che non può star fuori. Il linguaggio musicale è semantico e sintattico insieme o non è: non si può asserire che la musica sia temporale per essenza: essa può  anche esaurirsi in un solo accordo e lì spegnersi senza alcun  seguito; conta capire che dietro di essa c’è il compositore e la sua personalità, capire come si costruiscano  ricordi  o  immagini, quale sia  l'innovazione  necessaria  a coglierli  e  come si sviluppi, nel tempo, lo spazio che si è generato. Che ad un suono segua un altro suono e nient'affatto un terzo, questo fatto non è meramente sintattico, ma già  semantico, perché  legato  al  senso dell'enunciato  sonoro.  Quando  Rudolf Carnap[12],  una volta date le regole di formazione d'un  linguaggio, assegna  le sue regole di trasformazione (cioè di sviluppo),  ha costruito una sintassi, anzi un calcolo sintattico, quindi anche, se fosse il caso, una logica musicale, in cui ogni enunciato è  dimostrabile perché conforme alle regole di formazione già date, o  derivabile da quell'enunciato, perché da esso consegue, in base  alle regole  già assegnate di trasformazione (le regole dell'armonia,  del contrappunto,  dei  timbri ammissibili, dei ritmi  accettabili  e riconoscibili, di una melodia, che le regole d'una cultura considerano ancora valida e non obsoleta): in astratto,  insomma,  una sintassi, cioè un calcolo, affidabile anche ad una macchina, una volta che le siano state insegnate quelle regole. Ma,  senza  una dimensione  spaziale-semantica  del linguaggio,  quel  calcolo  è ancora  vuoto. Non c'è nessuna legge che lo  agganci  al  nostro ricordo, alle nostre immagini, ed esso non potrà mai  riprodurle, cioè generarle, crearle, portandole dall'oscuro piano psichico  a quello chiaro dell'espressione linguistica. E' a questo scopo che occorre  generare, per processo autoreferenziale,  il linguaggio semantico. E Carnap se  ne  rese conto  e  così Tarski[13] ed i teorici della lingua  e  del  pensiero logico. Se e quando tale linguaggio semantico sarà interamente affidabile ad una macchina, avremo anche prodotto una macchina pensante  (per la quale però, probabilmente, occorreranno più livelli  semantico-sintattici,  ciascuno capace di gestire  quello  inferiore). Come  è  fatto  questo linguaggio? Possiamo dire, per quel che riguarda l'arte e la musica (piuttosto che la logica  matematica o la riflessione neuroscientifica, campo  in  cui nasce), che tale linguaggio, per ogni enunciato che  sia  già stato costruito, trova un'interpretazione e che ogni  interpretazione  assegna  all'enunciato un valore  che soddisfa o  meno  un nostro  modello prefabbricato: avremo così enunciati validi o soddisfacenti  (o, nel  loro  sviluppo  temporale, conseguenze, valide  o  meno, di enunciati validi); ma, oltre a sapere, dalla logica matematica, che non c'è, in  generale, riducibilità del calcolo sintattico  al  linguaggio semantico  (lo ha dimostrato Gödel), sappiamo ormai che  è  la semantica a generare o riconoscere operativamente (nel fare) un'interpretazione per un  enunciato, a seconda che esso sia adeguato al contenuto attuale (immaginazione  o ricordo) che si intende cogliere (un "simbolizzato", che  è di  altro ordine del simbolo: in musica, da un lato si tratta di  psichismi, dall'altro di immagini sonore; due piani che non sono  confrontabili:  l'unico confronto sensato è che l'interpretazione  possa assegnare valori che consideriamo validi e soddisfacenti, o meno). Come  si vede,  non  si può concludere, con Mila, che il  segno  semantico immiserisce la musica al suo valore lessicale.[14] Anzi, il punto  è fondamentale:  quale lessico? quale insonorazione? quale nuovo valore di significazione assegnare ad un suono, ad una parola, già impiegati in mille altri contesti? Solo in  un ben  determinato  contesto  spaziale, e solo in  un  certo  nesso temporale possiamo sperare di trovare valori lessicali-semantici pregnanti, innovativi, sviluppabili in una  grammatica-sintassi, che  può a sua volta essere innovativa solo in quanto concorrente  a quell'espressività che la ricerca lessicale tenta di  promuovere. Non  c'è nulla sopra il suono e la successione di suoni, se non ciò che essi possono ‘rappresentare’ nel momento operativo in questione, dirlo-suonarlo nel modo migliore.  Appellarsi  alla creazione,  al genio, alla musica in sé, queste sono opzioni che  non  aggiungono nulla e non servono a chiarire. Tutto il "mistero" dell'arte  sta nell'adeguatezza sintattico-semantica al proprio mondo catettico, nel suo circuito autoreferenziale: nella  potenza del passaggio dall'immaginazione all'immagine sonora. Non ci sono regole a priori per assegnare interpretazioni agli enunciati, non modelli di validità.  D'altra parte, anche nel campo della logica, l'interpretazione  ideale  è quella che assegna il valore di ‘verità’ all'enunciato (ed è un'interpretazione ‘modello’): ma questo vale in astratto, perché, nell'ambito dell'applicazione alla  scienza, ciò  non esiste, non è raggiungibile, essendo ogni enunciato sempre probabile, sempre ipotesi, prima o poi falsificabile, a vantaggio di una migliore, più comprensiva.
        E  allora  torniamo a Sbordoni. In Agnus I,  più  che  il suono  stesso  nella sua unità, l'elemento  fortemente  influente sull'organizzazione  sonora, cioè sulla struttura, è  lo  spettro del suono, la sua decomposizione in elementi costitutivi, ma  non in sé e per sé, non nel suo stretto valore fenomenologico ‘spettrale’, ma in quanto segno correlato al prodotto di un atto della mente. Contro quello che il compositore ha chiamato un procedimento per  accumulazione  di  singoli elementi sonori, egli  suggerisce  un  altro procedimento: l'elemento sonoro è il significante di un significato, riposto nell'immaginazione  e nella memoria: non è la memoria  ad  essere elemento e strumento di unità e di unificazione strutturale;  non è  la presunta temporalità e serialità della memoria  a  generare l'unità sintattica; è l’immaginato, il contenuto  mnestico  della struttura mentale  che diventa  il  referente ‘significato’, che una parallela attività operativa della mente (quella creativo-artistica)  intende raggiungere  attraverso  il suono significante e le sue connessioni spaziali e temporali  con altri  suoni.  La qualità e l'origine del suono, ma  non  in  sé, bensì  solo in quanto  segno significante, operando sul  versante timbrico, opera anche su quello (armonico e) costruttivo.  Insomma: la  tecnica  formale-costruttiva  si  origina  dall'interno,  dal fare e dal bisogno e dallo sforzo di adeguare segni significanti al significato mnestico-immaginativo; non da regole di scuola.
        Ecco  allora il suono di un Om tibetano,  l'allusione  all'Ur-klang dei romantici (quel suono originario, che avrebbe  generato il mondo e portato poi a Wagner, a Mahler e anche a Schönberg): qui, un mi bemolle lentamente aperto alla voce del soprano, che attraversa  tutto  il pezzo con un canto sulla prima elegia  rilkiana  in dialogo  con  un  più sommesso procedere sul nastro  fra  coro  e sviluppo  sonoro, che si spegne in un suono fra il mi e il  fa  e che,  dopo una lunga pausa, riprende, ora sul sol: "O Lamm Gottes, unschuldig" (candido agnello di Dio) cita un corale, ripreso  anche da Bach nei corali di Lipsia, che si presenta ora  come  un  graffito,  un'esclamazione che proviene  da  lontano  e sgorgata  dal  profondo,  fortemente drammatica  nella  sua  pura allusione (mi-sol e poi fa diesis-sol): due grida subito soffocate,  due  lampi tragici, sette volte ripetuti con  intervalli  di tono diversi, che nessuna schiera di angeli potrà udire se non si muove  dal silenzio e da un diverso modo d'ascoltare, quando  dal silenzio soffia un messaggio ininterrotto; e un insistere sul re, su cui anche si chiude questo suggestivo pezzo. E  il  mi bemolle, con tutto il  suo  significato  espressivo, ritorna in "... durch die Lieb' allein", su cui è costruito tutto il  brano, rievocazione del  mi  bemolle  del Flauto magico[15]. Qui tutto il pezzo è una trasformazione di questo suono dal basso verso l'alto, secondo una struttura di trasformazione adottata anche in Alba. Cantata sulla perdita del sacro (1992) .
        In Alba c'è una ricerca formale in cui deve tradursi la relazione Diana (Afrodite) e pianeta Venere (stella del mattino), sulla base delle proporzioni del "pentalfa", riconducendo la spazialità  alla  temporalità come rapporto fra  la  durata  del tutto  e quella delle parti e poi di quella delle parti tra  loro ed infine riducendo una forma geometrica a forma sonora,  decodificabile  come disegno di tratti ascendenti, discendenti e  orizzontali,  riconducendo la fissità spaziale dei ritmi  siderei  al contenuto musicale e dando valori ai movimenti (ascendenza,  come presagio  nefasto;  orizzontalità, come  legge,  esercito,  ecc.;  discendenza, come dichiarazione d'amore, crollo del tempio, morte di Alba, ecc.). Ecco un nuovo, diverso, approccio alla forma, pensato al di là delle convenzioni compositive, nel processo del fare: lasciare  emergere il "senso" del segno geometrico astratto  ed il suo rimando a quel che avverrà.
        Suono dunque, come lessico. Adorno, a proposito  di Wagner  dice che elemento produttivo della sua musica è il  suono  (sia  come armonia, sia come colore) e che esso ha il  potere  di confinare il tempo, cioè la struttura sintattica, nel suo  spazio semantico. Per il suono «il tempo appare confinato per  incantesimo nello spazio, e come esso <suono> quale armonia ‘riempie’ lo spazio, così lo stesso nome di colore, per cui la teoria musicale non  conosce  altro equivalente, è desunto  dalla  sfera  ottico-spaziale»[16].  Ecco l'analisi  d'un modo in cui la forza  d'un lessico  sonoro può operare sulla struttura temporale: la  musica qui regredisce al medium atemporale del suono ed è la sua atemporalità  che  le  consente di svilupparlo,  dice  ancora  Adorno[17]. Impressionismo dell'armonia, ma soprattutto scoperta della dimensione  coloristica e della strumentazione  come  «partecipazione creativa  del colore»[18].
        L'altro esempio è Mahler; anche qui  la novità sta nel rapporto con il suono: «Esso impone alla tonalità  un'espressione di  cui  essa  non è più di per sé capace <...>  è  la  forzatura stessa  che  diviene  espressione. La tonalità <...> Mahler la infiamma dall'interno, partendo dall'esigenza espressiva»[19]. E più oltre: «il linguaggio di Mahler è pseudomorfosi in quanto si distanzia  a un tempo dal medium oggettivo del  suo  vocabolario [c.vo nostro], facendogli violenza per costringerlo, esorcizzarlo, ad acquistare una forza vincolante ormai problematica in lui: è come uno  straniero che parli correntemente la musica ma con l'accento del  suo paese»[20].
        Due esempi di costruzione semantica: suono come lessico coloristico e armonico, che raggela lo strutturalismo temporale nella spazialità dell'ambiguità e della reiterazione; e suono, invece, come forzatura espressiva sulla tonalità, violenza catettica  sul  medium neutrale del lessico.
        Sbordoni  segue  invece un'altra soluzione; non accetta queste, che sono sul versante dell'espressione  e dell'emozione (la strada dei romantici), così  come  non accetta  quella strutturalista della seconda scuola  viennese,  e poi  dello  sperimentalismo di Stoccarda. E' il suono  e  il  suo spettro, con le sue componenti fisiche, che genera se stesso,  si articola in un lessico, crea uno spazio sonoro che si dispone nel tempo  a partire dall'oggetto che si vuole cogliere: “O Lamm Gottes, unschuldig”, una serie di esclamativi, che emerge dal  suono di fondo, rigeneratore-ricostruttore, vi si sovrappone: un  graffito nella grotta del suono originario. Enunciazione, dunque, del problema  della parola e dell'ascolto; questa è  una  riflessione musicale  sulla musica, sulla sua stessa problematica  semantica: un  manifesto, ma non teorico universale a priori,  bensì "autoreferenziale" e di  alta  poesia, perché  non intende arrivare a sostituirsi intenzionalmente  alla critica musicale, ad esprimere in musica una teoria musicale (e, con   questo,  Sbordoni  si  pone  fuori  dalla  problematica   e dall'obiettivo  dichiarato delle avanguardie storiche: si  veda, per  esempio,  quel  che  dice  Argan  su  Rothko, Malevic, Ad Reinhard).[21] Suono come lessico, abbiamo detto: e questo, oltre  l'alternativa  fra  espressionismo e sperimentalismo o, se  vogliamo,  fra lessicalisti  e strutturalisti. E teniamo anche conto  del  fatto che,   sorprendentemente,  Schönberg,  certamente   strutturalista, assieme  a  Kandinsky pone invece la musica  sullo  stesso  piano della pittura, fino a teorizzare che del colore si ha una sonorità ed una musicalità, così come c'è una corporeità nella grana  e nella tessitura del suono; appare con ciò scarsamente valutata la posizione di Schönberg sul ruolo semantico  della musica: «anche nella musica <...> un piccolo cambiamento nella successione delle note,  un  diverso modo di collegarle, ed ecco  che  suoni  prima scialbi risplendono di una luce sfolgorante, o addirittura minacciano di mandare all'aria una forma che appena  qualche  momento prima  era  ancora così solida»[22]: come dire più  chiaramente  del potere  del lessico sonoro sulla struttura sintattica, nel farsi di essa?
        Parole che avrebbero potuto essere di Proust o di Debussy. Non possiamo accettare quindi la tesi di Adorno d'uno Schönberg progressivo tout court (e progressivo per gli stessi  motivi per cui Schönberg stesso aveva consegnato Brahms alla progressività) e d'uno Strawinsky invece  restauratore (per regresso nell'arcaico, per ritualità ed estraneazione, per feticismo dei mezzi, musica sulla musica e pseudomorfosi alla pittura: un'abdicazione della musica, questa, secondo Adorno, che oltre a smentire  la formula del passaggio da un Debussy-impressionista ad uno Strawinsky-cubista,  getterebbe questo pseudo-cubista  indietro, all'impressionismo di Debussy: in realtà, dice Adorno, «Strawinsky  ha ripreso direttamente la concezione a macchie  spaziali di  Debussy  e la tecnica dei complessi <...>  è debussiana. La novità sta solo in questo che si tagliano i legami di connessione fra  i complessi <...>. Le parti dei complessi  spaziali  restano duramente in contrapposizione tra loro»[23].
        Ma questa dicotomia di contenuto semantico e di forma  sintattica  viene per lo più risolta in termini ancora vaghi e  oscuri, come  si  può osservare in Luigi Rognoni: «La  decadenza  della forma è la decadenza dell'anima, cioè del contenuto; e il crescere  della forma è il crescere del contenuto,  cioè  dell'anima»[24], un'identificazione di anima e contenuto poco significante, in cui il  problema  musicale  è di non collocare  le  cose  una  vicino all'altra, ma di poter anticipare la conclusione, risalendo  alle cause, nel fare compositivo. Quando  Sbordoni  sviluppa linguaggi musicali in cui  suono  e struttura sono aperti all'immaginazione, intende con questo, a mio giudizio,  non solo e non tanto il fatto che l'immaginazione sia la fonte "creativa", ma soprattutto che essa è  anche  l'oggetto ‘significato’ di quelle operazioni che, sul  piano  linguistico-musicale, hanno l'intenzione di significare: operazioni di agenzie della mente, per dirla con Marvin Minsky[25], diverse dall'operazione  che  ha  generato quella immagine o  quel  ricordo:  una inconfrontabilità fra i due livelli operativi, che sta all'origine della tensione insolubile e della perenne insoddisfazione  che l'artista  prova  nella  ricerca di adeguatezza  del  simbolo al simbolizzato. La sintassi, il linguaggio musicale dal punto di vista  strutturale, si libera delle forme, non in modo programmatico, ma solo dove e quando ciò sia necessario e venga richiesto  dall'esigenza semantica: quello che Schönberg dice di Brahms: «asimmetria, combinazioni  di  frasi di diversa lunghezza, numero  di  battute indivisibile  per otto, per quattro o anche per due, cioè  numero dispari  di battute e altre irregolarità <...>, <questa>  liberazione del pensiero musicale dai vincoli  formali [c.vo nostro],  <...>  altre strutture asimmetriche, <fino> alle particolarità ritmiche  della poesia» (tanto che la melodia deve rendere in qualche  modo  il numero  dei piedi nella poesia), tutto questo vale per Sbordoni non come semplice «espansione dei rapporti di parentela dentro una tonalità», non come semplice costruzione di  frasi  lunghe,  con  deviazioni  nelle regolarità e nelle  simmetrie,  verso  una prosa musicale – ma quando Schönberg parla di “prosa musicale” in  realtà  sembra più giustamente che intenda  piuttosto  "verso libero" – ma vale come flessione della sintassi sulla semantica: non ricerca di bellezza strutturale in sé, ma ricerca di strutture adeguate all'oggetto da simbolizzare (cioè: Gestaltung). La progressività, insomma, non basta che si ponga nella direzione d'una lingua musicale non  limitata,  in sé e per sé, dalla forma: occorre che  si  dia progressività  nella  direzione di forme da non  limitare, perché debbono e solo così possono  cogliere immagini e ricordi dell'immaginazione  e della memoria[26]. E' solo a questo livello di  complessità che può valere quel che Massimo Mila dice sull'estensione delle modulazioni a regioni molto lontane dalla tonica e sulla forma come argine[27]. E lo stesso vale per Stefan  Schädler,  nel suo  saggio su Brahms, tutto orientato sull'analisi  strutturale: forma, in quanto principio d'organizzazione che si dà "nel  corso d'opera";  organizzazione come variazione; e variazione, non  come mutamento d'un tema, ma come formazione di strutture (rinuncia alle quattro voci concepite armonicamente: elementi che si legano ad  altre  costellazioni dinamiche). Questa  riflessione  critica rende  possibile  un diverso modo per tornare – nell'idea d'una terza fase dello sviluppo del pensiero musicale contemporaneo – verso una tonalità contemporanea, attraverso la  riconsiderazione di quella tradizionale, attraverso l'individuazione dei limiti da imporre alla complicazione della musica: una  riconsiderazione importante,  se non è (come sembra in quel saggio) ancora  vedere le cose senza l'incomodo del problema d'adeguare simbolo e simbolizzato,  cioè  se non è ancora un modo di vedere le cose  o  dal lato del suono o da quello della struttura[28]. Molto indicativo è quanto dice Sbordoni sul suono:  fra scala temperata e sperimentalismo, il problema non è esterno,  ma quello  di  riconoscere la sua istanza espressiva,  cioè  il  suo portato psichico-intellettuale; ciò significa che il suono non  è oggettivo, ma elemento lessicale di un atto significante-semantico:  per  un verso c'è l'atto immaginativo e mnestico  che  cerca espressione, per un altro verso c'è un simbolo che deve esprimere quel simbolizzato psichico. Poi, individuata quella che egli chiama la "liuteria", necessaria alla produzione di quelle sonorità (e con ciò la finalità di scoprire eventualmente un suono nuovo, cioè di inventare  un nuovo strumento, se mai possibile),  scomporla  nel suo spettro, essendo essa con-posta e quindi con-figurata in  una «configurazione  formale e costruttiva, adatta», adeguata  proprio  a  quella sonorità, a quel suono. E ciò vuol  dire  «farsi guidare dalla forza che esso possiede nell'‘organizzare’ tutto il comporre»:  gamma  della frequenza, intensità  (ricordiamoci  di Mahler), timbro (legato alla fonte del suono), armonici e ‘contesto’  semantico in cui si colloca e generatore, a sua volta, di contesti sintattici: non bloccato da schemi melodico-armonici  e tonal-modali[29].
        In  questo  contesto riflessivo e di ricerca  concreta,  punto chiave del pensiero di Sbordoni diventa anche la questione del  teatro, perché in essa si ripropone il tema del significato, esteso  alla  riflessione  sulla multimedialità.  L'argomento nasce  nella  riflessione  sul  senso  della musica moderna e sulla sua crisi: musica  dell'angoscia.  Problema è il modo della  convergenza  di significante  e  significato  e  dell'autonomia  espressiva  dei significati nel rapporto di un sistema a un altro (danza, musica, parola,  immagine):  un problema di  intermedialità  (come  nella liederistica dell'800, tra musica e poesia). La progressività di Sbordoni nel senso dell'intermedialità sta nella sua non-chiusura in uno dei  sistemi espressivi, ma nell'espansione alle espressività di altri sistemi (musica tonale e non-tonale, suono classico ed  elettronico, in rapporti relazionali e non presi in sé e per sé). Qui ritorna e si ripresenta il concetto di "balzo" (Absprung), ora come interazione di sistemi espressivi. Quindi progresso, nuovo terreno di ricerca, non più come variazione, nel senso di Beethoven, o come  apertura della forma, nel senso di Brahms, o come  raggelamento della forma nella spazialità dell'ambiguità e della  reiterazione,  nel senso di Wagner, o come equivalenza dei  toni, nel senso schönberghiano della critica del sistema tonale,  ma  come correlazione  di forme espressive, come «contrappunto di  differenti  articolazioni formali»[30]. Questo è il senso di altri due lavori: Lighea  e poi  La Sirenetta (neo-tonalità, ma in relazione di  "contrappunto  formale" con il testo, la danza, l'immagine scenica  e  la tonalità stessa, dentro la musica). Autonomia delle diverse forme e articolazione di articolazioni nei diversi settori; questo crea una  nuova  esperienza  semantica ed una  nuova  complessità  del discorso  sintattico: «n-esima potenza dei codici»,  un  chiaro significato dell'intermedialità nella multimedialità dei significati. Istanze  formali  e  sostanziali  (sintattico-semantiche) connesse (secondo l'asse verticale della combinazione significante, di Jakobson); e poi connessione di sistemi espressivi (secondo l'asse orizzontale della selezione dei significati, di Jakobson). Cercare una connessione di significante e significato  sul piano formale-espressivo così come sul piano dei contenuti e  poi la  connessione  fra le due connessioni;  pluralità  formale  dei sistemi  espressivi e pluralità dei loro contenuti: ciascuno  per sé,  ciascuno  sullo  stesso piano di  valore  (musica,  immagine scenica,  parola-canto,  danza e mimica). Questo, il risultato operato di Lighea  e di La Sirenetta, melodramma danzato, dove le figure,  i personaggi sono insiemi di linguaggi soprattutto  (racconto=giornalista, professore=canto, sirenetta=danza) e dove ogni contenuto espressivo dei settori media con gli altri, generando  l'interattività  e l'intermedialità. Questo, un risultato del nuovo  volto della musica contemporanea. Qui s'inserisce anche un’opera precedente: Sull'orlo della tua memoria (1994), mentre, ancor prima, Alba, cantata sulla perdita del sacro  (1992) esplicitava  ed  evidenziava,   non la perdita di  religiosità  del  mondo contemporaneo, ma la reificazione attuale del mito e del simbolo: in altre parole, un nuovo modo di riflessione meta-musicale,  perché, attraverso  queste  opere,  si è venuta  elaborando  una  costruttività pragmatica sul nuovo volto della musica.




         [1] Sulla struttura del linguaggio sonoro, Testo&Senso, 13, 2012.
         [2] È chiaro, tuttavia che la relazione gnoseologica io-oggetto è diversa dalla riflessione epistemologica su quella relazione.
         [3] P.W. BRIDGMAN, La logica della fisica moderna, Trad. V. Somenzi, Einaudi, Torino 1952: in  specie, Prefazione del traduttore e Prefazione (dell’autore).
         [4] Prima esecuzione assoluta su commissione OSN Rai (Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai), Germano Scurti bayan, Guido Arbonelli clarinetto, Groppo Progetto AleaNova, Arturo Tamayo direzione.
         [5]  «Wer, wenn ich schriee, hörte mich denn aus der  Engel/Ordnungen?  <...>  Stimmen,  Stimmen. Höre,  mein  Herz,  wie  sonst nur/ Heilige  hörten <...> das Wehende  höre,/ die  ununterbrochene Nachricht, die aus Stille sich bildet» (vv. 1-2, 54-55, 59-60).
          [6] A. DESTRO, Introduzione a R.M. Rilke, Elegie duinesi,  Einaudi, Torino 1978, p. VII.
          [7] F. EVANGELISTI, Dal silenzio a un nuovo mondo sonoro,  Semar, Roma 1991, p. 40.
          [8] A. SBORDONI, L'invenzione dell'armonia e l'armonia  dell'invenzione:  Brahms,  Schönberg  e il '900,  Colloquio  "Brahms  il progressivo", Pesaro 15 settembre 1995 (MS), p. 3 sgg.
          [9] R.M. RILKE, cit., Prima elegia, v. 52.
          [10] M. MILA, L'esperienza musicale e l'estetica, Einaudi,  Torino 1950,  in particolare, pp. 70-93; la citaz. del poeta è presa  da Goethe  a colloquio. Conversazioni scelte e tradotte  da  Barbara Allason, Torino 1947, p. 223.
          [11] M. MILA, ivi.
          [12] R: CARNAP, The Logical Syntax of Language, The Humanities Press Inc, New York, Routledge & Kegan Paul Ltd, 1951, passim.
          [13] A. TARSKY, Logic, Semantics and Metamathematics, Clarendon Press, Oxford, 1956, passim.
          [14] M. MILA, Ibid., p. 86.
          [15] Il tema richiama un pezzo per orchestra, precedente, credo del 1990, dallo stesso titolo.
          [16] Th.W.  ADORNO, Wagner, Mahler. Due  studi,  Einaudi,  Torino 1966, p. 67.
          [17] Ibid.
          [18] Ibid., p. 73.
          [19] Ibid., p. 155.
          [20] Ibid., p. 166.
          [21] G.C.  ARGAN, Occasioni di critica,  Editori  Riuniti,  Roma 1981, pp. 13-14.
          [22] A. SCHÖNBERG, W. KANDINSKY, Musica  e  pittura.  Lettere, testi,  documenti,  Einaudi, Torino 1988; cfr. di  Schönberg,  La mano felice, p. 87 sgg., e di Kandinsky, Il suono giallo, p.  119 sgg.; cfr. inoltre pp. 103-104 e 145 in particolare.
          [23] Th.W. ADORNO, Philosophie der neuen Musik,  J.C.B.Mohr  (Paul Siebeck), Tübingen 1949, pp. 125-126.
          [24] L. ROGNONI, Espressionismo e dodecafonia,  Einaudi,  Torino 1954, p. 310 per la citaz. e, inoltre, pp. 255-256.
          [25] M. MINSKY, La società della mente, Adelphi Ed.,  Milano 1989.
          [26] A,  SCHÖNBERG. Stil und Gedanke, Herausgegeben  von  I. Vojtech,  Fischer  Taschenbuch  Verlag, s.d.  Cfr.  anche  S. SCHÄDLER,  Technik und Verfahren in den "Studien für  Pianoforte: Variationen  über  ein Thema von Paganini" op.  35  von  Johannes Brahms,  in Musik-Konzepte 65 Aimez-vous Brahms  "the  progressive"?,  pp. 3-23. Per le citaz., nell'ordine, pp. 75-77, p.  62  e pp. 67-69.
          [27] M. MILA, Brahms e Wagner, Einaudi, Torino 1994, pp. 8 e 10.
          [28] A.  SBORDONI, Complessità della musica  semplice,  Convegno Elart 2.4.1990, (MS), p.8.
          [29] A. SBORDONI, Leggerezza del materiale (per una  autenticità espressiva del "sonoro"), Intervento al Convegno Nuova Consonanza "Cambiare musica", 1.12.1994, in particolare p. 6 e p. 4.
          [30] A. SBORDONI, Espressività, musica e fantasie. Il teatro musicale e il nuovo volto della musica contemporanea  (MS),  in particolare, per le citaz., pp. 14, 15 e 16.