Oggettività e soggettività nelle arti
figurative
Alberto Gianquinto
Arte concettuale, arte astratta, arte mentale
Duchamp ci pone una interessante questione
epistemologica: la sua arte sarebbe da considerare (anche secondo Argan)
puramente ‘mentale’, perché l’ ”icona-segno” (il messaggio visibile),
che la esibisce (e su cui può industriarsi il critico), sarebbe soprattutto un
“simbolo” che non visualizza, in quanto non può visualizzare ciò che non
è visibile; in effetti, ci sarebbe un’intenzione simbolica dell’autore, la cui
rappresentatività è “altra” da quella intenzione che potrebbe forse
essere intuibile, anche quando non visualizzabile dall’osservatore: l’icona, il
“segno visivo”, è “simbolo” di un atto o di un processo, che, in
questo senso, è puramente ‘mentale’.
Intendiamoci: dietro l’icona-segno c’è sempre
un’intenzione immanente del suo autore (che può oscillare dall’intenzione
esplicita-voluta a quella implicita, puramente immanente all’opera):
intenzione, che non coincide mai con il segno visibile; questa distanza
fra segno visibile e intenzione è costitutiva del dato artistico (se e quando
c’è) dell’opera.
Ma l’ “icona”, per definizione, è, di
fatto, un “segno visivo”, che, come tale, deve avere un rapporto
di somiglianza – sia pure anche intenzionale – con una ‘realtà’
(sia esterna che interna all’autore), in quanto presenta (deve in
qualche modo presentare) le stesse caratteristiche dell’oggetto: vale a dire, lo denota (deve
denotarlo). L’icona-segno denota un oggetto reale, esterno (oggettivo) o
interno (soggettivo).
Ma se la realtà di cui si parla è
‘mentale’, non visibile, l’icona dovrebbe essere un segno denotante un
oggetto intenzionale (un denotato intenzionale). Dobbiamo supporre, allora, che
l’icona sia un segno visivo che – almeno quanto alla realtà ‘mentale’ –
possa non avere nessun rapporto di somiglianza ‘oggettiva’ con essa.
Quell’icona “connota” allora l’oggetto intenzionale, ma non può certo “denotarlo”.
In tal caso, l’icona-segno è un “simbolo particolare”, dato che
il ‘segno’-icona – certo “visivo” di una realtà (esterna,
visibile appunto) –ha la pretesa di essere anche simbolo di una realtà
interna (appunto non più visibile) e di alludere allora solo come “simbolo”
– non come segno visibile – ad essa.
Ma
l’icona potrebbe anche non alludere a ciò che il suo segno pretende di essere
in quanto simbolo: il segno e il simbolizzato non avere alcun rapporto fra
loro. Il contenuto intenzionale (simbolico) non è allora identico (o
somigliante) alla forma data dall’icona-segno.
L’icona può pretendere così – come segno
di realtà peraltro non visibile – di possedere una sua potenza iconografica
‘specifica’, fondata su una iconologia
ad hoc (quella che è dettata dall’autore stesso). Ma si deve tenere
anche conto che una iconologia-iconografia, che sia fondata su un solo
individuo, cesserebbe ipso facto di essere tale, perché non potrebbe
essere simbolica, se non per il suo creatore: essa non comunicherebbe che a
lui stesso. Ma allora, di tutto ciò nulla si saprebbe.
Voglio ricordare quanto altrove ho detto,
che un elemento specifico dello sperimentalismo contemporaneo è lo spostamento
tematico di queste forme d’opera ad una riflessione sull’opera stessa:
spostamento, che viene operato attraverso la medesima attività dell’autore:
cioè, attraverso una riflessione compiuta con e nell’opera stessa.
In Ad Reinhard è l’eliminazione dei
fattori componenti – spazio, luce, colore, movimento – (data e presupposta
ormai dall’autore l’irraggiungibilità dell’obiettivo “natura”), a far sì che
l’opera – critica (di se stessa) – intesa come “morte dell’arte” (per
eliminazione di quei suoi inutili e impossibili fattori) – si ponga a
contenuto dell’opera stessa.
Quindi: la forma non può ‘esprimere’
più il contenuto, ma può essere ed ‘è’ essa stessa il contenuto; il
messaggio critico dell’autore (l’icona, come segno visibile) non è ‘espresso’
attraverso la forma assunta, ma ‘è’ la forma stessa (la tela nera).
Senonché il linguaggio pittorico non ha la ‘secondarietà’ del linguaggio
verbale (cioè l’autoreferenzialità di poter ‘dire’ attorno a se stesso).
L’opera non comunica la critica (morte dell’arte), ma comunica il
nero della tela (questo è il contenuto-segno dell’icona-opera).
Insomma, in Ad Reinhard l’icona-segno è
una forma che è anche contenuto: quindi non rappresenta (non esprime)
che se stessa. Per un verso l’icona, come segno ‘esterno’, visibile, è la forma
nera ed insieme il contenuto-colore nero; ma, per un altro verso, l’icona – non
esprimendo – ‘intende’ intenzionalmente dare alla forma un contenuto
“altro”, immanente per così dire, ‘interno’, non visibile: un contenuto, che
‘intende’ essere il concetto “la morte dell’arte”. Con questo Ad
Reinhard avrebbe creato una sua iconografia ad hoc. Il contenuto
interno non è ‘espresso’ attraverso la forma (non è messaggio):
per cui, di fatto, non c’è espressione. Resta (ma non nell’intenzione
dell’artista) la pura icona-segno, non un “simbolo” di una espressione (che non
c’è, se non nell’intenzione dell’autore). L’iconografia, per cui
quell’icona potrebbe esprimere un contenuto (un segno iconico che
diventerebbe allora iconografico), non c’è, se non come intenzione dell’autore.
Una effettiva iconografia può realizzarsi solo come prodotto iconologico
di una comunità che condivida il ‘senso’ intensionale (nel valore
logico-formale del termine[1]) e il ‘significato’ estensionale
(ancora nel valore logico-formale) del segno (qui l’estensione è ‘uno’, vale a
dire che è senza comunicazione ad altri: e dunque è inconoscibile).
Posti con ciò i termini della questione
(icona, segno, simbolo, messaggio, espressione, forma, contenuto, ‘esternità’ e
‘internità’ al segno, iconologia ed estensione iconografica), vediamo allora
quanto accade nell’arte astratta: poniamo Mondrian o Kandinskij.
L’arte astratta non ha altro
contenuto che la sua stessa forma. È parimenti vero che anche l’opera concettuale
(critica) non ha altro contenuto che la sua stessa forma; ma l’arte astratta
(si pensi a Vasilij Kandinskij, Abbozzo per composizione IV o a Piet
Mondrian, Composizione in rosso, nero, blu, giallo e grigio), in quanto
priva di un contenuto ‘altro’ (intenzionale), trova come suo contenuto,
‘espresso’, proprio la sua forma astratta (le linee ed i colori di quelle
opere); l’arte concettuale (critica), invece, ‘presume’ di dare alla sua
forma (il nero della tela) un contenuto altro (intenzionale: “la morte
dell’arte”), che non è espresso nella sua forma.
L’arte concettuale, nell’identità
di materiale formale dell’opera e di idea critica, coglie l’idea
come opera, coglie il concetto come materiale, non attraverso
l’opera, ma lo pretende come espressione mediata nell’opera.
Nell’arte astratta c’è ancora “espressione”; in quella concettuale non
più (se non nell’intenzionalità “esplicita, voluta, dichiarata”). Nell’arte
astratta c’è ancora un segno che è simbolo; in quella concettuale
non più (se non con un riferimento al voluto contenuto intenzionale).
Data l’‘identità’ forma-contenuto,
nell’arte concettuale la forma, che pretende di ‘raffigurare’ il
contenuto proprio come ‘idea’ (un contenuto nero, sostituito dall’idea “morte
dell’arte”) è anche forma ‘senza’ contenuto semantico (proprio senza
l’idea, che è assente nel suo contenuto effettivo, visibile: il nero), nel
senso di non essere ‘riferibile’ a quell’intenzione significativa; forma, che,
solo come atto critico ‘distinto’ avrebbe potuto ‘raffigurarlo’, quando invece
lo ha semplicemente cancellato, identificandovisi.
Nell’arte ‘mentale’ di Duchamp (il Grande
Vetro o La mariée mise à nu par
ses célibataires même, con colori a olio, fogli di piombo e argento tra
pannelli di vetro chiusi in telaio di legno e acciaio, 272,5 x 173.8,
Philadelphia Museum of Art), l’icona-segno, messaggio visibile, esterno, è il
vetro, mentre il simbolo intenzionale, mentale, è (nell’intenzione
dell’artista) quanto espresso nel titolo. La forma non restituisce il contenuto
interno, se non nell’intenzione iconografica dell’artista. La differenza
con la ‘concettualità’ di Ad Reinhard è che (qui, a differenza di Ad
Reinhard) il contenuto intenzionale è altro dalla forma: non c’è
l’autoreferenzialità del ‘tema’ con la forma (il vetro). La differenza con
l’arte astratta è che (a differenza di Kandinskij o di Mondrian) il
contenuto dell’opera non è identico alla sua forma.
Insomma: in Duchamp (arte mentale)
il contenuto intenzionale non è identico ed è altro dalla forma
dell’opera: in Ad Reinhard (arte concettuale) il contenuto intenzionale è
identico, ma anche altro dalla forma; nell’arte astratta, il
contenuto (non più intenzionale) è identico e non altro dalla forma.
Sulla storia dell’oggettività
Certamente ‘oggettivo’ è solo il segno
iconico: un segno, che può essere dato anche direttamente in natura, come lo
sono gli alberi, ‘iconologizzati’ nella cultura celtica o tutti quei segni
della natura che sono anch’essi ‘iconologizzati’ nelle culture indie.
L’icona (immagine), nella sua oggettività
di segno visivo può avere un rapporto di raffigurazione (più o
meno naturalistica) e anche di somiglianza (perfino di copia) con la realtà
(così la chiameremo questa seconda oggettività, sia ‘ontica’, di
esistenza esterna al segno, sia oggettività di esistenza intenzionale-soggettiva,
ma oggettivamente ‘restituita’, sebbene, in quanto intenzionale, per
così dire ‘interna’ al segno): realtà, che viene allora denotata
dall’icona in quanto simbolo (per esempio, la donna che porge la mela
appartiene alla realtà oggettiva – esterna al “segno” di una
“donna che porge la mela” – ma appartiene anche al “simbolo” della ‘verità’,
espresso da quel ‘segno’: ‘realtà’, dunque, in tal caso, di un’esistenza
intenzionale, soggettiva, interna al segno come simbolo, in quanto espressa
dal simbolo).
Questa denotazione simbolica della realtà
può avere origine culturale di valore magico o origine mnestica e avere o
non avere origine osservativa, soggetta questa o meno ai canoni
dell’artista.
E ancora, questa denotazione simbolica,
questo rapporto, in quanto tale si duplica come espressione, con due
termini distinti: la forma iconica e il contenuto di quella somiglianza con la
realtà, espresso dalla forma. Tale espressione è un messaggio, quando e in
quanto sia comunicato. Il contenuto può
essere di realtà esterna o di realtà interna (di intenzionalità soggettiva) al
segno, determinando una estensione iconografica, che può ridursi al singolo,
abolendo con ciò la comunicazione e quindi anche l’iconologia intesa.
Ma quando l’icona-segno non denota una
realtà né connota un’intenzione immanente (esplicita o implicita che sia),
quando si spezza il rapporto del segno visivo con ogni valore simbolico
diretto, quando il contenuto intenzionale è altro dalla forma, quando
l’intenzione (esplicita o implicita che sia) è altra dall’icona-segno, allora
il carattere mentale o concettuale dell’opera va perduto:
scompare la sostanza dell’opera (che avrebbe potuto farsi arte), scompare
l’espressione di un contenuto (raffigurazione, senso e significati), scompare
la comunicazione.
Sui canoni soggettivi
(stile) della oggettività
Se guardiamo alla Storia dell’arte
di Gombrich, sembra (ma non saprei dire quanto esplicitamente) che, immanente,
vi sia una sorta di tendenza, un ‘progresso’ nell’arte verso la costruzione e
il raggiungimento di una ‘oggettività’ in sé (alla conquista di una ‘realtà’),
perseguita secondo tradizioni e attraverso rinnovamenti – con sbalzi, biforcazioni e deviazioni – fino
a raggiungere un’armonia dei suoi costituenti interni, difficilmente
superabile, che poi rompe la tradizione fino allora perseguita, in una crisi
rivoluzionaria (dalla fine del ‘700 in poi) verso nuovi ‘canoni’ soggettivi.
Sicché tutti i ‘canoni’ costituiti nel corso della storia sarebbero da
intendere come passi di un processo di avvicinamento alla ‘realtà’ in sé del
mondo ‘oggettivo’, ma poi come passi verso l’assoluta soggettività
dell’arte sperimentale; insomma: non ‘canoni’ da intendere come pure modalità
di costituzione (di creazione) di quella specifica oggettività
che sta a fronte delle icone dell’opera d’arte, bensì come modalità
appartenenti ed imputabili solo al puro percorso storico.
Mi spiego: a differenza della scienza,
dove la ricerca e la scoperta costituiscono e fondano una ‘ontologia’ (unico
percorso determinato dalla falsificabilità delle ipotesi), nella ricerca e
nella creazione dell’arte, invece – anche se l’obiettivo di essa può essere
(stato) in determinati periodi la determinazione e la fissazione di ‘canoni’
sempre più validi nella rappresentazione e nella raffigurazione
reale della natura – ogni insieme di questi canoni ha costituito e
costituisce sempre una sua ‘realtà’ ed anche una sua ‘oggettività’, che
possono venire rivisitate – l’una e l’altra – e modificate da altri artisti
(senza pregiudizio alcuno per quanto fatto prima); un insieme, che resta pertanto
individuale ed unico. Unico, come insieme di canoni (ma non di percorso) e
costituente una ‘soggettività’ specifica (diversa dalla soggettività della
unitaria comunità degli scienziati), ma capace di costruire la ‘sua’
oggettività e la sua realtà; in ultima analisi: senza relazione
indissolubile con ogni altra soggettività.
Chiarisco meglio la distinzione fatta di
‘realtà’ e di ‘oggettività’: con quest’ultimo termine si dovrebbe intendere
essenzialmente il campo che si pone come correlato esterno, non
soggettivo, dell’icona-segno; con il primo, invece, il campo correlato interno
ed esterno (soggettivo ed oggettivo): sicché, nella relazione del ‘segno’
al correlato del segno, questo correlato dobbiamo, per chiarezza e per
tradizione logico-formale, indicarlo direttamente come ‘oggettivo’; nella relazione, invece, del ‘simbolo’ al suo
simbolizzato, il suo correlato è ‘reale’ (e può essere oggettivo o soggettivo).
Baudelaire[2]
ha opportunamente sostenuto l’inapplicabilità dell’idea di ‘progresso’ nelle
belle arti; ma le sue argomentazioni non sono in contrasto con la teoria di
Lukács,[3]
secondo cui l’oggettività è anche legata alla storia della società. Nel
contrasto che questi delinea fra l’approccio letterario di Zola e quello di
Balzac, i problemi sociali, ‘descritti’ nel primo come fatti, sono
invece ‘narrati’ nel secondo, diventando in tal modo ‘oggettivamente’
rilevanti. Questa rilevanza ‘oggettiva’ è in effetti soltanto “un dato
storico”: una rilevanza, che si comprende solo attraverso i problemi che si
aprono nella storia. Per dirla con Gramsci, se il senso della storia si
comprende attraverso i problemi che vi si vengono a porre, il progresso,
in date circostanze, può essere antistorico e reazionario e va distinto dalla storia
in cui si realizza. La relatività anche temporale del suo valore, il suo
stretto ancoraggio alla politica,
finiscono per escludere da esso il potere di rappresentare (per la
storia) un senso. Quindi, la posizione di Lukács non contrasta con
quella di Baudelaire: ‘narrare’ è (culturalmente-politicamente) più
progressivo del ‘descrivere’, ma non c’è, con questo, un progresso
nella “storia dell’arte”.
Inoltre l’oggettività ‘segnica’ e la
realtà ‘simbolica’ nulla hanno a che fare con questioni di progressività
dell’arte. I ‘canoni’ possono tendere all’oggettività del segno o alla più
ampia realtà (anche intenzionale) del simbolo: questa è decisione della
creatività artistica, che attende sempre una ‘conferma’ culturale, sociale e
storica. Non è dato sapere della ‘fecondità’ futura dei canoni artistici nella
‘costruzione’ del correlato del segno-simbolo.
L’arte non ha dunque smarrito
nessun orientamento, perché non è percepibile un ‘orientamento’ nella storia:
l’esigenza di “dipingere ciò che si vede”
non è orientata verso l’oggettivo o verso il reale, non verso
un’imitazione esterna o una persuasività (esterna o interna): e non solo
nell’animazione del volto, ma nel costruire modalità sempre più profonde di
figuratività (esterna) o di non-figuratività (ossia: di figuratività interna).
Sarà la cultura della società a poter prendere posizione (politica?) in un
determinato senso.
L’insoddisfazione per le stilizzazioni
egizie ed assire ha generato (ma senza superarle definitivamente) i nuovi
canoni di armonia e di equilibrio dell’arte cretese e poi greca. La scoperta
dello scorcio, del piede frontale e del movimento nella Grecia del VII-V secolo
non si collocano su un percorso costitutivo di approfondimento oggettivo
della natura. Il cubismo ha riproposto positivamente, fra l’altro, proprio
l’arte di egizi ed assiri. E la ‘rivoluzione’ impressionista ha rimesso in
discussione, in tutt’altro modo, l’arte cretese, greca e romana. La magia e la
religiosità dei primitivi e delle culture etniche si sono riproposte quasi
incessantemente nella storia.
Ciò posto, è facile ora affrontare anche
la questione di ‘oggettività’ e ‘realtà’ nell’arte di artisti
come, poniamo, Calabria (pur affermando la soggettività dei loro
‘canoni’ di spazio e di materia), a fronte della soggettività, invece
costitutiva, delle opere di Bacon, di quello specifico espressionismo che si
colloca all’origine della “nuova figurazione”. “Dipingere in trance”, in
una “percezione nervosa” e “di ossessività psichica” “della condizione di
esistere”, che crea “morfemi psicotici” e ritaglia dentro la tela “uno spazio
retinico soggettivo”, dove si colloca un’“esperienza esistenziale”, di
complessità psichiche “che patologizzano [soggettivandolo] il rapporto col
reale”, e di distorsioni “di lenti e specchi […] laceranti”, che non provengono
da un dramma soggettivo, interiore, ma dall’oggettività “coercitiva e
torturante al limite della mutazione genetica e antropologica” dell’“azione
dell’ambiente”: questa libera sequenza di citazioni da Luigi Ficacci[4]
su Bacon testimonia di una lontana oggettività, che resta soltanto causa
di una mutazione, che è invece solo tutta interna e soggettiva.
Se in Duchamp, allora, l’icona
(segno denotante un oggetto intenzionale) è simbolo di un processo ‘mentale’
che non visualizza e non comunica se non attraverso parole (cioè con un altro
linguaggio), in Bacon, invece, l’icona, anch’essa segno di un
oggetto intenzionale, è simbolo – nella realtà esterna, oggettiva, del segno –
di una soggettività: un’icona, che restituisce l’intenzione soggettiva come
oggettiva; la forma iconica ‘esprime’ un contenuto simbolico
interno con un contenuto segnico esterno. In Bacon – a differenza
dell’arte mentale di Duchamp, di quella concettuale di Ad Reinhard, di quella
astratta di Kandinskij o di Mondrian – il contenuto intenzionale (interno) è
tutto espresso nella forma segnica (esterna). E così è per il suo
“spazio retinico”, a differenza dello “spazio topologico” di
un Calabria, simbolicamente reale, ma di una implicita intenzionalità, nei suoi
creativi canoni soggettivi.
[1] Intensione ed estensione
sono termini che stanno per connotazione e denotazione: un segno denota la
propria estensione e connota o esprime la propria intensione. Cfr. anche E.
Casari, Lineamenti di logica matematica, Feltrinelli, Milano 19613,
p. 21 sgg. Così, dal punto di vista estensionale dire Socrate o dire “maestro
di Platone “ è la stessa cosa; ma non dal punto di vista intensionale. ‘Intensione’
è quindi termine diverso da ‘intenzione’.
[2] Charles Baudelaire,
Scritti sull’arte, Einaudi, Torino 1981, Metodo di critica. Dell’idea
moderna del progresso applicata alle belle arti. Spostamento della vitalità,
p 183 sgg.
[3]
György Lukács, Il marxismo e la critica letteraria, Einaudi, Torino
1964; cfr. Narrare o descrivere?, pp. 269-323.
[4] Luigi Ficacci, Caravaggio
Bacon: lo spazio e la realtà, p. 85 sgg., in Caravaggio Bacon, Roma,
Galleria Borghese, 2 ott. 2009 – 24 genn. 2010, Catalogo Federico Motta ed.,
Milano 2009.
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