di Ennio Calabria
Se oggi le fasce intellettuali vanno spostando la loro attenzione e il
loro investimento sui dinamismi espliciti dei processi mentali in adesione ad
una società della superficie, il consumismo al contrario diviene l’unico
intellettuale (chiamiamolo così) che lavora sulle dimensioni inconsapevoli
della personalità, proponendo ad esse di scegliere tra l’esilio e il rientro in
patria con un falso documento d’identità.
Ma in
questa patria ci sono masse di individui svuotati di anima, vestiti di
tecnologie, persi nei telefonini, sensibili al riprodotto, indifferenti
all’originale, disposti a festeggiare uno sconosciuto purché famoso,
accarezzati da un seducente richiamo che unifica le loro volontà e i loro
sogni, in un eccitante conformismo, che riconosce ciascuno dicendogli: “tu vali .. sei speciale .. proprio per te ...solo tu ..”
Questo,
purtroppo, è il destino delle masse, le quali sono culturalmente sempre
subalterne e spostano il proprio interesse dall’originale al riprodotto.
Tuttavia, nell’attuale assetto sociale, la massa è l’interlocutore
decisivo delle strategie economiche ed impone alle dimensione degli scambi
reali della società la graduale esclusione dei livelli alti della cultura,
perché essi producono e inducono differenziati livelli di appetizione a causa
del loro spirito critico e della loro capacità di autonomia. La massa invece è
economicamente utilizzabile se si identifica un minimo comun denominatore che
sia capace di livellare i desideri, le volontà e la percezione dei bisogni. Su
questo poggia il grande inganno: l’identità individuale è autorizzata ad
esistere socialmente proprio attraverso la sua morte per conformismo.
Questo
inganno oggi ha particolare successo perché si è prodotto un inedito divorzio
tra due fondamentali dimensioni della personalità psichica: quella pragmatica,
che ha necessità di lavorare in tempo reale sulla fase conclusa dei processi e
sui codici già definiti; e quella complessa, che ospita il processo in
atto e che è espressione delle dimensioni introspettive della personalità,
agite dall’attività dell’inconscio e fondamentali per rinvenire le cause prime
dei successivi comportamenti.
Tale
divorzio ha distrutto la collaborazione tra queste due necessarie parti della
psiche che, separate, non hanno più capacità di autonomia e di libera
identificazione del valore, né possono più identificare un soddisfacente
rapporto di causa effetto che spieghi i fenomeni.
Ciò appare
evidente osservando l’attuale limitata capacità della politica di leggere la
realtà sociale in rapporto ai processi mentali che l’agiscono.
Tale divorzio decreta non solo la fine
dell’interazione tra queste due polarità, ma annulla la stessa disposizione a
fare interagire qualsiasi altra polarità con la sua antagonista. Per cui il
pensiero dualistico perde vitalità, la cultura collassa nel nozionismo e le
esperienze non si relazionano più tra loro, ma semplicemente coesistono.
Tutto ciò
che ho detto è causato dall’alto livello della velocità degli scambi.
In questo
scenario, infatti, si modificano anche le circostanze di identificazione delle
identità. Ad una velocità più lenta, per esempio, un pittore (che utilizzo
proprio come soggetto emblematico) disegnava i contorni dell’oggetto, e ciò
significava che tra lui e quell’oggetto esisteva una distanza sufficiente, uno
spazio temporale e mentale che gli consentiva di definire i confini
dell’oggetto stesso.
Ora, per
l’alta velocità degli scambi, quel pittore collassa nell’oggetto, diviene parte
di esso: e lo azzanna il terrore di non riuscire a identificare più non solo i
confini dell’oggetto, ma gli stessi confini di sé.
Cosa fare?
Occorre spostarsi indietro fino a ritrovare i propri geni, che essendo diversi
da quelli dell’oggetto esterno, gli consentono di ridefinire la propria
identità. Da ciò deriva che l’identità di un artista oggi non è più nel suo
racconto, ma nel suo primigenio nesso associativo.
Forse
questo è il dinamismo che spiega il radicalizzarsi dei fondamentalismi, che
inconsapevolmente cercano nei propri caratteri primigenii la strategia per
difendere la propria identità, incalzata da una tecnologia globalizzata,
invasiva e cosificante.
Sembra
quasi che l’alternativa stia tra il rischio di una robotizzazione e quello di
una regressione che sembra essere, nella sua violenza, un’inconsapevole
reazione umana alla disumanizzazione.
In questo
quadro diviene evidente la necessità di porre fine all’esperienza
interdisciplinare del ‘900, in cui la disciplina, subordinando la propria
integrità ad una pura ipotesi ideologica, quella dell’unità della poesia,
cedeva parti di sé alle altre discipline, penalizzando così la propria potenza
di verità.
Oggi appare
chiaro che una disciplina deve radicalizzarsi in sé, andando caso mai a
rinvenire nei propri tratti fondanti le ragioni primigenie della propria natura
e funzione.
Comunque,
tornando alle due dimensioni della personalità ormai separate, vorrei precisare
che ad esse corrispondono in arte due comportamenti produttivi nettamente
differenti tra loro e, di conseguenza, due diverse definizioni della natura
dell’arte.
Uno dei due
filoni è il così detto “sistema
dell’arte“ che, in derivazione dal dominio ormai assoluto della società
pragmatica (o, per meglio dire, della società della superficie), esclude
anch’esso, pur nelle sue molteplici articolazioni, le dimensioni introspettive
della personalità, e quindi esclude l’attività dell’inconscio.
In questo
caso l’artista utilizza soltanto la propria cultura, concettuale o estetica che sia, il proprio gusto e infine
la propria manualità; oppure costruisce un equivalenza tra livello tecnologico e
qualità estetica. Egli esteticizza
concetti per lo più preesistenti, li emozionalizza a volte, ma non li genera,
perché escludendo l’attività dell’inconscio si comporta come un ragioniere
informato esteticamente, ma anche consapevole che non conta la verità in sé, ma
ciò che può sembrare vero. Naturalmente non può rinunciare a richiamare
l’attenzione del fruitore, magari usando il sensazionalismo, ma poi quando
quello si volta, l’artista non ha spesso nulla
innovatore, ma in realtà si tratta ormai, purtroppo, di una odierna arte
di regime, una ormai stanca accademia che canta la stessa vuota canzone, ignara
che nel frattempo la vita è andata avanti, molto molto avanti…
Quanto
all’altro comportamento artistico, quello che deriva dalle dimensioni complesse
della personalità esiliate dalla realtà dei dinamismi sociali, per brevità non
ne parlo, visto che la sua configurazione credo emerga dall’intero mio scritto.
L’anima e Dio sono volati via e forse qualche volta si recano a trovare le
dimensioni introspettive della personalità individuale nel loro esilio, e
magari ad aiutarle a ritrovare le parole per esprimersi, quelle parole che sono
state loro confiscate quando sono state
cacciate fuori dalla persona sociale.
Questi
spessori profondi della personalità si sono rifugiati nel profondo di essa,
nascosti persino alla coscienza consapevole, che odiano perché in essa
riconoscono la società che li ha esiliati e cercano di aggredirla di sorpresa.
Quando
leggiamo la cronaca nera ci troviamo di fronte a fatti tragici in cui non
riusciamo a costruire un rapporto soddisfacente di causa/effetto. Ecco, forse
sono loro, le dimensioni complesse, le vere responsabili. E quelli che hanno
compiuto quel crimine spaventoso se ne chiedono il perché.
Ma se in
esilio si piange, anche in patria non si ride. L’individuo ormai regredito è
nudo nella sua animalità. La coscienza è frastornata e vuota; il corpo,
anch’esso regredito a “oggetto” della natura perché separato dalla sua
psichicità, pesa come mai in passato sull’elaborazione di ciò che resta di una
coscienza scissa e confusa.
Così questo
tipo di uomo non ha più la forza di dissociarsi dall’automatismo della natura,
si fa simbiotico alle sue leggi spietate e sembra regredire a tal punto da
opacizzare in sé quella grande conquista evolutiva che è l’autocoscienza.
Ciascuno
sprofonda in una tetra autoreferenzialità. In tale autoreferenzialità le
esperienze coesistono, senza che si stabilisca tra esse una relazione di senso.
L’unica relazione possibile si configura come rapporto di forza tra le
reciproche capacità di impatto espositivo.
L’autorità
del piano oggettivo delle convenzioni sociali ha perduto credibilità. E’
divenuta il teatro in cui infiniti attori recitano ciascuno per proprio conto,
e se ci sarà un copione unificante la coscienza, questo accadrà in un incerto
futuro.
La
coscienza collettiva non esiste più, ma è divenuta falsa coscienza, in cui vero
e falso si interscambiano, e la loro reciproca verità deriva soltanto dal buon
esito dell’affare. Solo la travagliata coscienza individuale in profonda
trasformazione è forse capace di produrre, a volte, testimonianza di verità, ma
l’angoscia aggredisce perché si ha l’impressione che d’ora in poi la produzione
creativa della coscienza individuale non avrà più speranza di essere giudicata
e pertanto di poter essere riconosciuta come bene collettivo. Essa rischia di
restare separata e di poter avere forse solo rapporti con qualche anima gemella
che, per ragioni altrettanto oscure, la sentirà vicina a sé.
Io ho come l’impressione di vivere in uno spazio chiuso
senza specchi. Mi tocco il volto e spero di essere come mi immagino, ma non posso esserne certo perché non ho
specchi.
In sostanza
non sono giudicabile. Ciò non dovrebbe stupire, visto che oggi i valori non
sono identificabili, se non per ciò che producono economicamente.
Ma la
tristezza irrompe perché sento che
quegli ambìti specchi che ti definiscono non torneranno forse più. Saremo noi
pittori che concepiamo l’arte come necessità (perché essa consente di
reinventare quell’arto, che la vita ci ha amputato) i ventriloqui che
usano l’aria interna per parlare ad un esterno ormai sordo.
Dicevo che
Dio forse va a visitare la personalità introspettiva esiliata. Ma non è
possibile anche che si intenerisca di fronte a questo uomo di nuovo nudo? Non è possibile che egli voglia che
l’orientamento venga riconosciuto nel farsi stesso della vita, perché in essa
c’è qualcosa di “universale” ?
Ma poi per
l’aumento abnorme della velocità con cui
ormai la nostra mente scambia, non si è forse prodotta una nuova articolazione
del tempo per cui anche il passato prossimo è ormai tanto remoto che non ha più
nulla a che vedere con il nostro presente? Questo uomo nudo di simboli e di passato è oggettivamente “spaesato”.
Certo, così come i capelli diventano tiepidi per la luce del sole anche quando
il sole non c’è, noi avvertiamo il sospiro del passato, ma è un dialogo con il
passato fatto di sintomi non più verbalizzabili. I sintomi, infatti,
sono molto compatibili con il corpo che in questa fase diviene un prezioso
informatore della mente complessa, perché non interpreta le informazioni che
riceve ma, appunto, le sintomatizza, cioè ne amplia le implicazioni
sulla personalità. E’ come se avessimo fisiologizzato la storia e la memoria. E’ come se ci
preparassimo ad accogliere un oltre la storia.
Voglio dire
che non ci troviamo di fronte a patologie momentanee di una società che
conserva la propria natura di sempre. Ci troviamo invece di fronte a vere
mutazioni. Non si tratta, come pensano molti intellettuali, di deviazioni, per
esempio, ideologiche, ideali e religiose o comunque derivanti da cause di
natura direttamente antropomorfa. Ci troviamo invece di fronte ad ibridi, cioè
a dire a fattori dimensionali, quali la velocità, lo spazio, il tempo.
Prima tempo
e spazio pattinavano assieme. Ora il tempo se ne va oltre e si fa tempo della
coscienza. Duttile e sfuggente,
trasporta nella sua corsa il dato, sino al turbinio dei nostri
dubbi e delle nostre impotenze. Così quegli intellettuali non si rendono conto
che infinite particelle di a-storia entrano con violenza nel farsi della storia
e che la stessa coscienza è in trasformazione strutturale, poiché va cedendo i
propri attributi morali sostituendoli con il concetto di “funzione” che nei
casi fortunati si fa “evolutiva” . Questi intellettuali di conseguenza non si
rendono conto che ciò comporta la
necessità di rifondare i loro stessi riferimenti.
Del resto il relativismo,
relativizzando ogni posizione ideologica e ogni sistema di pensiero su
cui si reggeva la possibile interpretazione della vita, rinvia alla vita
stessa, riconoscendola come “motore
primigenio” da cui deriva il pensiero che, oggi, ne diviene “servizio”.
Lo stesso fenomeno,
che prima veniva significato dal suo esterno grazie ad un sistema di pensieri
condiviso, oggi propone al suo esterno se stesso, comprensivo della
propria interpretazione.
Così oggi
il vivente diviene una fonte informativa che, al suo apparire, condanna
le parole ad un lontano ieri.
Ecco, non è
forse possibile che le potenzialità del corpo, di fronte ad uno scenario
inedito, richiedano oggi alla mente una maggior umiltà per costruire una comune
strategia difensiva dell’individuo, che si fondi su una necessaria maggior
pariteticità di investimenti?
E qui
vorrei farmi e fare una domanda. Può il soggetto nella sua forma storica, cioè
un soggetto che muove da certezze che lo procedono, ma sempre in coerenza di
consenso o di contestazione con esse, può tale forma di soggetto reggere
all’irruzione di quell’ibrido dimensionale di cui ho detto?
Può
riuscire a rapportarsi ad una coscienza non più preorganizzata dal già pensato?
Può sopravvivere allo spaesamento generato dalla perdita di orientamenti certi
e durevoli?
Può
rapportarsi ad un potere anch’esso cosificato e cosificante, com’è quello
presente, ormai simbiotico all’automatismo del modello economico che ci sta di
fronte?
Può
accettare che la figura simbolica del padre docente non sia più collocata nel
passato, ma sia espressione ormai dello sconosciuto futuro e che in esso
alloggi?
Sino ad ora
ci siamo ritenuti responsabili soltanto di ciò di cui abbiamo consapevolezza.
Abbiamo
ignorato che sia le nostre azioni consapevoli sia quelle inconsapevoli
producono effetti sull’ambiente.
Forse
iniziamo oggi a comprendere che le attività di quelle parti della psiche,
sempre ignorate dalla storiografia e dalla collettività in quanto ritenute
separate dalla coscienza (perché esterne al territorio di cui la coscienza si
fa carico), devono oggi essere reintegrate entro la responsabilità della
coscienza sociale.
Ciò
comporta questioni importantissime che già forse inconsapevolmente, ma con
determinazione, sono apparse nel travaglio dell’arte del primo 900.
In sintesi,
in quel travaglio credo fosse decisiva la necessità di sperimentare una nuova
forma della soggettività capace di contenere in sé nel contempo sia il soggetto
consapevole, sia quello inconsapevole; sia il progetto, sia la casualità; e –
io aggiungerei – sia la storia, sia i nuovi ibridi causati da eventi
dimensionali, cioè, come già detto, da particelle di a-storia, di cui forse il
processo di industrializzazione anticipava una possibile rappresentazione.
Quegli
artisti del primo ‘900, per vie diverse, avevano presagito e percepito la crisi
della forma storica di un soggetto che muoveva da certezze che, se pur negate,
restavano comunque per lui l’orientamento; soggetto che pretendeva di
controllare tutto e di riportare ai propri schemi l’azione della casualità,
negando ad essa la sua libertà.
Duchamp,
per esempio, spinge la propria creatività individuale e la sua diretta
responsabilità consapevole sino al negare l’efficacia della logica. Egli fa
appunto questo nell’affermare che un oggetto recupera il significato più
innovativo di sé quando abbandona (o meglio, si sottrae) alla consequenzialità
prevedibile dal suo contesto logicamente funzionale.
Poi Duchamp
affida ad uno spazio espositivo l’oggetto che, decontestualizzato, perde non
solo la sua funzione, ma anche la sua appartenenza ad una percezione collettiva
e condivisa. E da quel momento saranno i
visitatori a ri-percepirlo, ciascuno attraverso le proprie soggettive emozioni.
I futuristi non hanno posto in crisi il soggetto nella
sua forma storica nella misura di Duchamp ma, forse per influenza nietzschiana,
ne hanno iperpotenziato le risorse, al punto da immaginarlo capace di simbiosi
con la velocità e con le sue tecnologie.
Tuttavia,
pur avendo i futuristi avviato un nodo problematico di cui alcuni elementi oggi
tornano nei processi digitali dell’immagine come distinzione tra carne, corpo e
tecnologia; pur nelle svariate scomposizioni dell’immagine; pur nella fantasia
disumanizzante; pur nel sogno di simbiosi con la velocità e la macchina; pur
nel non-abbandono della retinicità, per essi si trattò di una vitale corsa, almeno
nella maggior parte dei casi, lungo il processo lineare del tempo e del
pensiero, lontano dalla postuma intuizione tridimensionale di Fontana.
Klee cerca
cosa rende l’uomo, e forse l’artista, unici, non clonabili, necessari e non
alienabili ed identifica questo quid con l’inconscio.
La stessa
avanguardia sovietica pone in crisi il soggetto dirigistico attraverso la
condanna del soggetto sciamanico in cui identificava l’artista nella sua
individualità. L’artista non doveva essere considerato come un’eccellenza
creativa, ma come un portatore di tecniche e di sapere estetico, mentre i
contenuti ce li avrebbe messi la gente nella sua creatività quotidiana. Si
tratta dello stesso concetto che Duchamp esprime quando delega ad altri la
definizione dell’oggetto decontestualizzato.
Infine, tra
i pochi esempi significativi che posso portare per brevità, c’è il caso
Pollock.
Pollock,
come Duchamp, sente i limiti del proprio controllo diretto sull’opera e allora,
quasi per liberarsene, spinge il proprio controllo sino a progettare il
gesto che lo liberi da se stesso. Questo gesto segna la fine del controllo
ed apre alla sovrana libertà delle casuali colature della materia, liberata
dall’automatismo di un gesto scudisciante della mano.
Ma al
contrario di Duchamp, Pollock affronta la grande questione della trasformazione
della soggettività, assumendo tale trasformazione in una continuità con se
stesso.
Come in uno
stato ipnotico per la reiterazione del vagare tra sapere e non sapere, egli si
fa carico della sovrana libertà della casualità, ma senza vessarla e senza
riportarla al sé consapevole.
Così, come
un medium si pone come canale vuoto che l’entità utilizzerà nella propria
autonomia, Pollock si lascia utilizzare da quella capricciosa e imprevedibile
entità che è il “caso”, e ne dà
testimonianza nella continuità di se stesso.
Io credo
che nella semicoscenza Pollock in qualche modo sia riuscito a modificare la
propria, diciamo, velocità psichica. Ciò gli consentiva di accompagnare
l’accidentale prodursi della forma e di assumersene la responsabilità in tempo
reale, divenendo egli stesso servizio di quell’accadere.
Forse in
questo si coglie la fondamentale differenza tra la pratica dell’arte e quella
della scienza. Parlo di pratica poiché l’intuizione iniziale, quella che muove
a cercare conferme, è la stessa per l’artista e per lo scienziato. La
differenza invece tra essi si configura nello specifico modo con cui ciascuno
di essi si rapporta allo sconosciuto.
Il
matematico Shannon sostiene che ad un certo livello di entropia corrisponde
l’azzeramento delle informazioni. Spesso per l’artista, dotato com’è di
velocità psichica, questo non è del tutto vero, anzi spesso quel livello
entropico potrebbe configurarsi come un magazzino di potenziali informazioni.
Insomma, quella lateralità con cui si etichettava l’artista per
escluderlo di fatto dalla realtà, oggi è necessaria proprio per riconoscere la
realtà.
In tal
senso la richiesta che Obama ha rivolto proprio in questi giorni al regista
James Cameron di impegnare la sua immaginazione per contribuire all’arresto del
versamento di petrolio nel mare, impresa in cui la scienza per ora ha fallito,
mi pare veramente emblematica e di grande significato.
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