giovedì 19 aprile 2012

La coscienza e il tempo


                          di Ennio Calabria
                                                                                                                                                                         Se oggi le fasce intellettuali vanno spostando la loro attenzione e il loro investimento sui dinamismi espliciti dei processi mentali in adesione ad una società della superficie, il consumismo al contrario diviene l’unico intellettuale (chiamiamolo così) che lavora sulle dimensioni inconsapevoli della personalità, proponendo ad esse di scegliere tra l’esilio e il rientro in patria con un falso documento d’identità.
Ma in questa patria ci sono masse di individui svuotati di anima, vestiti di tecnologie, persi nei telefonini, sensibili al riprodotto, indifferenti all’originale, disposti a festeggiare uno sconosciuto purché famoso, accarezzati da un seducente richiamo che unifica le loro volontà e i loro sogni, in un eccitante conformismo, che riconosce ciascuno dicendogli: “tu vali  .. sei speciale .. proprio per te   ...solo tu ..”
Questo, purtroppo, è il destino delle masse, le quali sono culturalmente sempre subalterne e spostano il proprio interesse dall’originale al riprodotto.
Tuttavia, nell’attuale assetto sociale, la massa è l’interlocutore decisivo delle strategie economiche ed impone alle dimensione degli scambi reali della società la graduale esclusione dei livelli alti della cultura, perché essi producono e inducono differenziati livelli di appetizione a causa del loro spirito critico e della loro capacità di autonomia. La massa invece è economicamente utilizzabile se si identifica un minimo comun denominatore che sia capace di livellare i desideri, le volontà e la percezione dei bisogni. Su questo poggia il grande inganno: l’identità individuale è autorizzata ad esistere socialmente proprio attraverso la sua morte per conformismo.
Questo inganno oggi ha particolare successo perché si è prodotto un inedito divorzio tra due fondamentali dimensioni della personalità psichica: quella pragmatica, che ha necessità di lavorare in tempo reale sulla fase conclusa dei processi e sui codici già definiti; e quella complessa, che ospita il processo in atto e che è espressione delle dimensioni introspettive della personalità, agite dall’attività dell’inconscio e fondamentali per rinvenire le cause prime dei successivi comportamenti.
Tale divorzio ha distrutto la collaborazione tra queste due necessarie parti della psiche che, separate, non hanno più capacità di autonomia e di libera identificazione del valore, né possono più identificare un soddisfacente rapporto di causa effetto che spieghi i fenomeni.
Ciò appare evidente osservando l’attuale limitata capacità della politica di leggere la realtà sociale in rapporto ai processi mentali che l’agiscono.
 Tale divorzio decreta non solo la fine dell’interazione tra queste due polarità, ma annulla la stessa disposizione a fare interagire qualsiasi altra polarità con la sua antagonista. Per cui il pensiero dualistico perde vitalità, la cultura collassa nel nozionismo e le esperienze non si relazionano più tra loro, ma semplicemente coesistono.
Tutto ciò che ho detto è causato dall’alto livello della velocità degli scambi.
In questo scenario, infatti, si modificano anche le circostanze di identificazione delle identità. Ad una velocità più lenta, per esempio, un pittore (che utilizzo proprio come soggetto emblematico) disegnava i contorni dell’oggetto, e ciò significava che tra lui e quell’oggetto esisteva una distanza sufficiente, uno spazio temporale e mentale che gli consentiva di definire i confini dell’oggetto stesso.
Ora, per l’alta velocità degli scambi, quel pittore collassa nell’oggetto, diviene parte di esso: e lo azzanna il terrore di non riuscire a identificare più non solo i confini dell’oggetto, ma gli stessi confini di sé.
Cosa fare? Occorre spostarsi indietro fino a ritrovare i propri geni, che essendo diversi da quelli dell’oggetto esterno, gli consentono di ridefinire la propria identità. Da ciò deriva che l’identità di un artista oggi non è più nel suo racconto, ma nel suo primigenio nesso associativo.
Forse questo è il dinamismo che spiega il radicalizzarsi dei fondamentalismi, che inconsapevolmente cercano nei propri caratteri primigenii la strategia per difendere la propria identità, incalzata da una tecnologia globalizzata, invasiva e cosificante.
Sembra quasi che l’alternativa stia tra il rischio di una robotizzazione e quello di una regressione che sembra essere, nella sua violenza, un’inconsapevole reazione umana alla disumanizzazione.
In questo quadro diviene evidente la necessità di porre fine all’esperienza interdisciplinare del ‘900, in cui la disciplina, subordinando la propria integrità ad una pura ipotesi ideologica, quella dell’unità della poesia, cedeva parti di sé alle altre discipline, penalizzando così la propria potenza di verità.
Oggi appare chiaro che una disciplina deve radicalizzarsi in sé, andando caso mai a rinvenire nei propri tratti fondanti le ragioni primigenie della propria natura e funzione.
Comunque, tornando alle due dimensioni della personalità ormai separate, vorrei precisare che ad esse corrispondono in arte due comportamenti produttivi nettamente differenti tra loro e, di conseguenza, due diverse definizioni della natura dell’arte.
Uno dei due filoni è il così detto  “sistema dell’arte“ che, in derivazione dal dominio ormai assoluto della società pragmatica (o, per meglio dire, della società della superficie), esclude anch’esso, pur nelle sue molteplici articolazioni, le dimensioni introspettive della personalità, e quindi esclude l’attività dell’inconscio.
In questo caso l’artista utilizza soltanto la propria cultura, concettuale  o estetica che sia, il proprio gusto e infine la propria manualità; oppure costruisce un equivalenza tra livello tecnologico e qualità estetica.  Egli esteticizza concetti per lo più preesistenti, li emozionalizza a volte, ma non li genera, perché escludendo l’attività dell’inconscio si comporta come un ragioniere informato esteticamente, ma anche consapevole che non conta la verità in sé, ma ciò che può sembrare vero. Naturalmente non può rinunciare a richiamare l’attenzione del fruitore, magari usando il sensazionalismo, ma poi quando quello si volta, l’artista non ha spesso nulla  innovatore, ma in realtà si tratta ormai, purtroppo, di una odierna arte di regime, una ormai stanca accademia che canta la stessa vuota canzone, ignara che nel frattempo la vita è andata avanti, molto molto avanti…
Quanto all’altro comportamento artistico, quello che deriva dalle dimensioni complesse della personalità esiliate dalla realtà dei dinamismi sociali, per brevità non ne parlo, visto che la sua configurazione credo emerga dall’intero mio scritto. L’anima e Dio sono volati via e forse qualche volta si recano a trovare le dimensioni introspettive della personalità individuale nel loro esilio, e magari ad aiutarle a ritrovare le parole per esprimersi, quelle parole che sono state  loro confiscate quando sono state cacciate fuori dalla persona sociale.
Questi spessori profondi della personalità si sono rifugiati nel profondo di essa, nascosti persino alla coscienza consapevole, che odiano perché in essa riconoscono la società che li ha esiliati e cercano di aggredirla di sorpresa.
Quando leggiamo la cronaca nera ci troviamo di fronte a fatti tragici in cui non riusciamo a costruire un rapporto soddisfacente di causa/effetto. Ecco, forse sono loro, le dimensioni complesse, le vere responsabili. E quelli che hanno compiuto quel crimine spaventoso se ne chiedono il perché.
Ma se in esilio si piange, anche in patria non si ride. L’individuo ormai regredito è nudo nella sua animalità. La coscienza è frastornata e vuota; il corpo, anch’esso regredito a “oggetto” della natura perché separato dalla sua psichicità, pesa come mai in passato sull’elaborazione di ciò che resta di una coscienza scissa e confusa.
Così questo tipo di uomo non ha più la forza di dissociarsi dall’automatismo della natura, si fa simbiotico alle sue leggi spietate e sembra regredire a tal punto da opacizzare in sé quella grande conquista evolutiva che è l’autocoscienza.
Ciascuno sprofonda in una tetra autoreferenzialità. In tale autoreferenzialità le esperienze coesistono, senza che si stabilisca tra esse una relazione di senso. L’unica relazione possibile si configura come rapporto di forza tra le reciproche capacità di impatto espositivo. 
L’autorità del piano oggettivo delle convenzioni sociali ha perduto credibilità. E’ divenuta il teatro in cui infiniti attori recitano ciascuno per proprio conto, e se ci sarà un copione unificante la coscienza, questo accadrà in un incerto futuro.
La coscienza collettiva non esiste più, ma è divenuta falsa coscienza, in cui vero e falso si interscambiano, e la loro reciproca verità deriva soltanto dal buon esito dell’affare. Solo la travagliata coscienza individuale in profonda trasformazione è forse capace di produrre, a volte, testimonianza di verità, ma l’angoscia aggredisce perché si ha l’impressione che d’ora in poi la produzione creativa della coscienza individuale non avrà più speranza di essere giudicata e pertanto di poter essere riconosciuta come bene collettivo. Essa rischia di restare separata e di poter avere forse solo rapporti con qualche anima gemella che, per ragioni altrettanto oscure, la sentirà vicina a sé.
Io ho come l’impressione di vivere in uno spazio chiuso senza specchi. Mi tocco il volto e spero di essere come mi immagino, ma  non posso esserne certo perché non ho specchi.
In sostanza non sono giudicabile. Ciò non dovrebbe stupire, visto che oggi i valori non sono identificabili, se non per ciò che producono economicamente.
Ma la tristezza irrompe  perché sento che quegli ambìti specchi che ti definiscono non torneranno forse più. Saremo noi pittori che concepiamo l’arte come necessità (perché essa consente di reinventare quell’arto, che la vita ci ha amputato) i ventriloqui che usano l’aria interna per parlare ad un esterno ormai sordo.
Dicevo che Dio forse va a visitare la personalità introspettiva esiliata. Ma non è possibile anche che si intenerisca di fronte a questo uomo di nuovo nudo?  Non è possibile che egli voglia che l’orientamento venga riconosciuto nel farsi stesso della vita, perché in essa c’è qualcosa di “universale” ?
Ma poi per l’aumento abnorme della velocità  con cui ormai la nostra mente scambia, non si è forse prodotta una nuova articolazione del tempo per cui anche il passato prossimo è ormai tanto remoto che non ha più nulla a che vedere con il nostro presente? Questo uomo nudo di simboli  e di passato è oggettivamente “spaesato”. Certo, così come i capelli diventano tiepidi per la luce del sole anche quando il sole non c’è, noi avvertiamo il sospiro del passato, ma è un dialogo con il passato fatto di sintomi non più verbalizzabili. I sintomi, infatti, sono molto compatibili con il corpo che in questa fase diviene un prezioso informatore della mente complessa, perché non interpreta le informazioni che riceve ma, appunto, le sintomatizza, cioè ne amplia le implicazioni sulla personalità. E’ come se avessimo fisiologizzato  la storia e la memoria. E’ come se ci preparassimo ad accogliere  un  oltre la storia.
Voglio dire che non ci troviamo di fronte a patologie momentanee di una società che conserva la propria natura di sempre. Ci troviamo invece di fronte a vere mutazioni. Non si tratta, come pensano molti intellettuali, di deviazioni, per esempio, ideologiche, ideali e religiose o comunque derivanti da cause di natura direttamente antropomorfa. Ci troviamo invece di fronte ad ibridi, cioè a dire a fattori dimensionali, quali la velocità, lo spazio, il tempo.
Prima tempo e spazio pattinavano assieme. Ora il tempo se ne va oltre e si fa tempo della coscienza. Duttile e sfuggente,  trasporta nella sua corsa il dato, sino al turbinio dei nostri dubbi e delle nostre impotenze. Così quegli intellettuali non si rendono conto che infinite particelle di a-storia entrano con violenza nel farsi della storia e che la stessa coscienza è in trasformazione strutturale, poiché va cedendo i propri attributi morali sostituendoli con il concetto di “funzione” che nei casi fortunati si fa “evolutiva” . Questi intellettuali di conseguenza non si rendono  conto che ciò comporta la necessità di rifondare i loro stessi riferimenti.
Del resto il relativismo,  relativizzando ogni posizione ideologica e ogni sistema di pensiero su cui si reggeva la possibile interpretazione della vita, rinvia alla vita stessa, riconoscendola  come “motore primigenio” da cui deriva il pensiero che, oggi, ne diviene “servizio”.
Lo stesso fenomeno, che prima veniva significato dal suo esterno grazie ad un sistema di pensieri condiviso, oggi propone al suo esterno se stesso, comprensivo della propria interpretazione.
Così oggi il vivente diviene una fonte informativa che, al suo apparire, condanna le parole ad un lontano ieri.
Ecco, non è forse possibile che le potenzialità del corpo, di fronte ad uno scenario inedito, richiedano oggi alla mente una maggior umiltà per costruire una comune strategia difensiva dell’individuo, che si fondi su una necessaria maggior pariteticità  di investimenti?
E qui vorrei farmi e fare una domanda. Può il soggetto nella sua forma storica, cioè un soggetto che muove da certezze che lo procedono, ma sempre in coerenza di consenso o di contestazione con esse, può tale forma di soggetto reggere all’irruzione di quell’ibrido dimensionale di cui ho detto?
Può riuscire a rapportarsi ad una coscienza non più preorganizzata dal già pensato? Può sopravvivere allo spaesamento generato dalla perdita di orientamenti certi e durevoli?
Può rapportarsi ad un potere anch’esso cosificato e cosificante, com’è quello presente, ormai simbiotico all’automatismo del modello economico che ci sta di fronte?
Può accettare che la figura simbolica del padre docente non sia più collocata nel passato, ma sia espressione ormai dello sconosciuto futuro e che in esso alloggi?
Sino ad ora ci siamo ritenuti responsabili soltanto di ciò di cui abbiamo consapevolezza.
Abbiamo ignorato che sia le nostre azioni consapevoli sia quelle inconsapevoli producono effetti sull’ambiente.
Forse iniziamo oggi a comprendere che le attività di quelle parti della psiche, sempre ignorate dalla storiografia e dalla collettività in quanto ritenute separate dalla coscienza (perché esterne al territorio di cui la coscienza si fa carico), devono oggi essere reintegrate entro la responsabilità della coscienza sociale.
Ciò comporta questioni importantissime che già forse inconsapevolmente, ma con determinazione, sono apparse nel travaglio dell’arte del primo 900.
In sintesi, in quel travaglio credo fosse decisiva la necessità di sperimentare una nuova forma della soggettività capace di contenere in sé nel contempo sia il soggetto consapevole, sia quello inconsapevole; sia il progetto, sia la casualità; e – io aggiungerei – sia la storia, sia i nuovi ibridi causati da eventi dimensionali, cioè, come già detto, da particelle di a-storia, di cui forse il processo di industrializzazione anticipava una possibile rappresentazione.
Quegli artisti del primo ‘900, per vie diverse, avevano presagito e percepito la crisi della forma storica di un soggetto che muoveva da certezze che, se pur negate, restavano comunque per lui l’orientamento; soggetto che pretendeva di controllare tutto e di riportare ai propri schemi l’azione della casualità, negando ad essa la sua libertà.
Duchamp, per esempio, spinge la propria creatività individuale e la sua diretta responsabilità consapevole sino al negare l’efficacia della logica. Egli fa appunto questo nell’affermare che un oggetto recupera il significato più innovativo di sé quando abbandona (o meglio, si sottrae) alla consequenzialità prevedibile dal suo contesto logicamente funzionale.
Poi Duchamp affida ad uno spazio espositivo l’oggetto che, decontestualizzato, perde non solo la sua funzione, ma anche la sua appartenenza ad una percezione collettiva e condivisa.  E da quel momento saranno i visitatori a ri-percepirlo, ciascuno attraverso le proprie soggettive emozioni.
I futuristi non hanno posto in crisi il soggetto nella sua forma storica nella misura di Duchamp ma, forse per influenza nietzschiana, ne hanno iperpotenziato le risorse, al punto da immaginarlo capace di simbiosi con la velocità e con le sue tecnologie.
Tuttavia, pur avendo i futuristi avviato un nodo problematico di cui alcuni elementi oggi tornano nei processi digitali dell’immagine come distinzione tra carne, corpo e tecnologia; pur nelle svariate scomposizioni dell’immagine; pur nella fantasia disumanizzante; pur nel sogno di simbiosi con la velocità e la macchina; pur nel non-abbandono della retinicità, per essi si trattò di una vitale corsa, almeno nella maggior parte dei casi, lungo il processo lineare del tempo e del pensiero, lontano dalla postuma intuizione tridimensionale di Fontana.
Klee cerca cosa rende l’uomo, e forse l’artista, unici, non clonabili, necessari e non alienabili ed identifica questo quid con l’inconscio.
La stessa avanguardia sovietica pone in crisi il soggetto dirigistico attraverso la condanna del soggetto sciamanico in cui identificava l’artista nella sua individualità. L’artista non doveva essere considerato come un’eccellenza creativa, ma come un portatore di tecniche e di sapere estetico, mentre i contenuti ce li avrebbe messi la gente nella sua creatività quotidiana. Si tratta dello stesso concetto che Duchamp esprime quando delega ad altri la definizione dell’oggetto decontestualizzato.
Infine, tra i pochi esempi significativi che posso portare per brevità, c’è il caso Pollock.
Pollock, come Duchamp, sente i limiti del proprio controllo diretto sull’opera e allora, quasi per liberarsene, spinge il proprio controllo sino a progettare il gesto che lo liberi da se stesso. Questo gesto segna la fine del controllo ed apre alla sovrana libertà delle casuali colature della materia, liberata dall’automatismo di un gesto scudisciante della mano.
Ma al contrario di Duchamp, Pollock affronta la grande questione della trasformazione della soggettività, assumendo tale trasformazione in una continuità con se stesso.
Come in uno stato ipnotico per la reiterazione del vagare tra sapere e non sapere, egli si fa carico della sovrana libertà della casualità, ma senza vessarla e senza riportarla al sé consapevole.
Così, come un medium si pone come canale vuoto che l’entità utilizzerà nella propria autonomia, Pollock si lascia utilizzare da quella capricciosa e imprevedibile entità che è il “caso”,  e ne dà testimonianza nella continuità di se stesso.
Io credo che nella semicoscenza Pollock in qualche modo sia riuscito a modificare la propria, diciamo, velocità psichica. Ciò gli consentiva di accompagnare l’accidentale prodursi della forma e di assumersene la responsabilità in tempo reale, divenendo egli stesso servizio di quell’accadere.
Forse in questo si coglie la fondamentale differenza tra la pratica dell’arte e quella della scienza. Parlo di pratica poiché l’intuizione iniziale, quella che muove a cercare conferme, è la stessa per l’artista e per lo scienziato. La differenza invece tra essi si configura nello specifico modo con cui ciascuno di essi si rapporta allo sconosciuto.
Il matematico Shannon sostiene che ad un certo livello di entropia corrisponde l’azzeramento delle informazioni. Spesso per l’artista, dotato com’è di velocità psichica, questo non è del tutto vero, anzi spesso quel livello entropico potrebbe configurarsi come un magazzino di potenziali informazioni. Insomma, quella lateralità con cui si etichettava l’artista per escluderlo di fatto dalla realtà, oggi è necessaria proprio per riconoscere la realtà.
In tal senso la richiesta che Obama ha rivolto proprio in questi giorni al regista James Cameron di impegnare la sua immaginazione per contribuire all’arresto del versamento di petrolio nel mare, impresa in cui la scienza per ora ha fallito, mi pare veramente emblematica e di grande significato.
                                                                                    
                                                                                    Ennio  Calabria

Nessun commento:

Posta un commento