Alberto Gianquinto
La struttura del
linguaggio figurativo.
Il sistema
simbolico[1] delle immagini
Lateralità e prelinguismo
Non sono
neuroscienziato, ma ritengo le ricerche di Steven Pinker, Semir Zeki ed altri,
che si appoggiano alla biologia evolutiva di Darwin, alla psicologia di William
James e alla linguistica di Chomsky, le più promettenti e affidabili per una
loro possibile estensione, dai linguaggi verbali a quelli dei suoni e della
musica, a quelli delle immagini, a proposito dei quali ultimi credo si possa
sostenere ora la possibilità di affrontare il problema di un rinnovo della
critica delle arti figurative.
Vorrei qui parlare di
linguaggi come prodotti di un ‘istinto’ biologico, intendendo con
quest’ultimo termine una competenza istintiva, presente sia nei
linguaggi delle parole che in quelli delle immagini o dei suoni[2]: cioè, la
tendenza della mente, darwinianamente intesa (legata a fattori sia genetici che
di apprendimento e maturazione), ad acquistare la capacità di un uso
simbolico, proprio nel senso in cui un ragno può usare la sua ragnatela.
Cercherò di presentare
questa prospettiva biologica del linguaggio, con l’incremento decisivo delle
ricerche di Semir Zeki nel campo della visione e delle riflessioni sull’arte
figurativa[3], direttamente
come contesto della mia operazione di ripensamento del linguaggio figurativo e
come prodotto di quel punto di vista neurobiologico, tanto da rendere i due aspetti inseparabili.
Il primo punto da
considerare è la spiegazione darwiniana dell’unicità del linguaggio
umano, che muove da un’ipotesi di evoluzione non “a scala”, con l’uomo in cima
ad essa, ma di quell’evoluzione chiamata “a cespuglio”, secondo la quale l’uomo
non è un prodotto evolutivo dello scimpanzé, ma, assieme ad esso, di un
antenato comune; e questi due antenati, non dalla scimmia, ma con essa, di un
antenato ancora più lontano. Ciò pone l’essere umano ed il suo linguaggio in
una situazione di unicità, che porta a chiedere quale sia la causa
di questo procedere.
Senza entrare più a
fondo nel merito, diciamo che si è arrivati a comprendere come, oltre al modo
e al tempo-luogo dell’evoluzione, ci sia anche una causa di essa,
nel fatto che l’evoluzione delle specie muta nel tempo per
effetto di una selezione naturale, cioè per effetto della discendenza
con modificazione: sicché, causa dell’evoluzione è la selezione
naturale di ogni specie-insieme, con proprietà di adattamento:
cioè, con proprietà di moltiplicazione (o autocopiatura), di variazione (o replica imperfetta) e di
ereditarietà (o imperfezione di copiatura, che si ripresenta nelle copie
successive).
L’unicità del
linguaggio umano è il risultato di questo processo evolutivo modificato
dalla selezione naturale. Come ricorda Pinker, il linguaggio è risultato di
piccoli miglioramenti casuali, conservati e concentrati, ciò che è accaduto per
l’occhio, a partire da corpi senza occhi, ma con sole membrane sensibili alla
luce[4].
Anche psicologia e
sociologia evoluzionistica si fondano sui lavori di Darwin, di William James e
di Chomsky: in tal senso ogni apprendimento è reso possibile da
un qualche meccanismo innato, attraverso moduli regolati da leggi specifiche,
la cui organizzazione è prodotto della selezione naturale, quindi con funzioni
utili. La ‘cultura’ stessa è un processo di coordinamento di uomini e
menti, conforme a questa ipotesi psico-sociologica evoluzionistica[5]. Anche il
linguaggio musicale e quello figurativo sono unici e risultati di evoluzione e
selezione naturale.
Possiamo allora dare per assodato che il linguaggio umano, in tutte
le sue tre forme fondamentali, gode di questa unicità; ed aggiungiamo ora
che momento proprio e, per così dire interno, a tale unicità, non solo è quella
specificità simbolica che assegniamo alla sua forma (figurazione o
sonorità musicali o verbalità), ma anche quella interna ad ognuna di tali forme
linguistiche, che chiamiamo possibilità di creatività o di pensiero
laterale. Come?
Sostiene Pinker che la maggior parte delle pratiche culturali – quindi
anche la pittura – sono capacità
(tecnologie) costituite per esercitare moduli mentali progettati all’origine
per funzioni adattattive specifiche[6]. Consideriamola
una definizione neurobiologica della pittura.
Veniamo così all’istinto linguistico e alla sua organizzazione nella
mente. L’ipotesi di Pinker è che questo istinto sia niente più
che una possibilità biologica, conforme alla causalità fisica[7]. I geni
di questo linguaggio ancora tutto mentale - che peraltro ha potenzialità
verbale, ma anche musicale e figurativa - sono allora stringhe di DNA,
che nel cervello (in certi momenti e luoghi) codificano proteine (o provocano
la trascrizione di proteine), le quali guidano, attraggono o attaccano neuroni
a formare reti, le quali a loro volta, in combinazione con la
sintonizzazione sinaptica (che ha luogo durante l’apprendimento),
sono necessarie per trovare soluzioni ai problemi semantici e sintattici
del linguaggio. La strutturazione di questa grammatica ‘mentale’ determina la
configurazione dei linguaggi reali, sia verbali, che sonori e figurativi[8]. «La mia
previsione è quindi – dice Pinker – che ci siano combinazioni
particolarissime di geni […] dietro al narratore, al freddurista, al poeta
…», a Dante, Marcel Proust, William Shakespeare, T.S. Eliot[9]; ma così anche
a Bach e Wagner, a Leonardo e Michelangelo.
Dunque, sappiamo ora perché e come possediamo un linguaggio
‘mentale’ comune, costituito di strutturazioni neuroniche a livello
biologico (di selezione naturale e adattamento), e, nello stesso tempo, una sua
strutturabilità individuale, visibile o udibile, fatta di organizzazioni
(o sintonizzazioni) sinaptiche, come prodotti di apprendimento[10].
Darwin ha espresso,
secondo Pinker, l’intuizione chiave secondo cui, in sostanza, l’inglese è
simile eppure diverso dal tedesco (così come, aggiungiamo, la pittura di Rubens
può essere per certi aspetti simile eppure profondamente diversa da quella di
Delacroix), per la stessa ragione per cui le volpi sono simili, sebbene diverse
dai lupi, in quanto modificazioni di una comune specie antenata, nell’un caso,
e di una comune lingua antenata, nell’altro[11].
Le differenze tra le
lingue, come tra le specie, sono effetti di tre processi di lungo periodo:
(a) la variazione o replica imperfetta [mutazione per le specie, innovazione
per le lingue], (b) l’ereditarietà dell’imperfezione [genetica
per le specie, capacità di apprendere per le lingue], (c) l’isolamento
[geografico per le specie, migrazioni e barriere sociali e culturali
per le lingue][12].
Insomma: quanto al rapporto fra
organizzazione mentale e struttura linguistica, quali che siano le capacità
grammaticali innate, queste sono troppo schematiche per poter generare da sole
tutte le possibilità semantiche e le costruzioni sintattiche. Anche se i geni
specificano il progetto di base del linguaggio, questo, come ogni altra
attività, è un fatto essenzialmente sociale e culturale[13]: se per un
bambino italiano la lingua sconosciuta è proprio l’italiano, mentre
‘conosciuta’ è la sua organizzazione
mentale, così per un Giotto bambino sconosciuta è ancora la pittura del
‘300, ma non la sua capacità figurativa mentale[14]. Come ricorda
Pinker, non si nasce sapendo già usare il linguaggio: occorre sperimentare
su di sé il funzionamento dei propri strumenti e imparare da
genitori e maestri le particolarità di quel funzionamento[15].
Con questi riferimenti
pensiamo di avere dato un quadro minimale, sufficiente dell’approccio di fondo,
qui condiviso, e possiamo introdurci nei particolari del linguaggio dell’immagine.
Possiamo ancora aggiungere che il pensiero ‘visivo’ ha la capacità di usare «un
sistema grafico mentale (c.vo nostro), con operazioni che ruotano,
scandiscono, avvicinano, spostano, eseguono panoramiche, profilano contorni»[16]: un sistema di
rappresentazioni del cervello visivo (cioè di immagini che il cervello - nella
sua specializzazione visiva – fornisce in quanto ne ha competenza istintiva,
biologica e funzionale): rappresentazioni “mentali”, senza ulteriore “rivestimento”
di parole, ma con potenzialità di loro “scrittura” (esternazione reale). Il
pensiero visivo a questo livello (di rappresentazione della mente,
e quindi ancora possiamo dire prelinguistico, in quanto non prodotto nel
linguaggio della scrittura della visibilità effettiva), è, come dice Pinker,
una rappresentazione simbolica interna[17], una
combinazione di segni simbolici[18] (ancora
intenzionali e istintivi) e di ‘processori’, cioè di operatori (o
meccanismi con un insieme fisso di riflessi), la cui combinazione
produce forme intelligibili, per rappresentare immagini e relazioni tra di
esse, secondo schemi ‘coerenti’: una grammatica, insomma, di
combinazioni semantiche e di relazioni sintattiche di
combinazioni, i cui protocolli interconnettono meccanismi molto diversi a
livello cerebrale, ma coinvolgenti dall’occhio alla mano[19].
Ci sarebbe, dunque, fin da bambini, una propensione a distinguere
automaticamente una sintassi delle immagini, così come una morfologia
semantica. Pertanto, dato che l’immagine, ora quella reale
(quella prodotta), è puro simbolo, soggetto a processori e ad apprendimento di
quanto viene con essa simbolizzato, la relazione tra la sua effettiva
visibilità ottica (qualunque aspetto assuma) e il suo significato
(oggettivo) è del tutto individuale ed arbitraria quanto ad aspettative di resa[20].
Siamo ormai dentro il linguaggio figurativo e allora dobbiamo precisare
subito la diversità della sua struttura, nel confronto con il linguaggio
verbale. Quest’ultimo, strutturato ad albero, con il suo sintagma nominale e
l’altro verbale e le sottoramificazioni (articolo, aggettivo, nome, verbo,
sintagma nominale del verbo, ecc.); quello figurativo, strutturato invece da
un insieme simultaneo di combinazioni di “aree funzionali” distinte,
sovrapposte o accostate, non tutte insieme possibili. La distinzione fra
aree sovrapposte o accostate specifica, nella mia ipotesi, i due ambiti, quello
semantico e quello sintattico, del linguaggio figurativo.
Per esempio, si è parlato di ‘cose’ e di ‘azioni’ da poter
essere raffigurate; e la mente (e con ciò intendiamo l’operatività del
cervello) è progettata per distinguerle, nel linguaggio delle immagini, per la
loro spazialità: una spazialità, che diciamo intrinseca, delle
singole ‘figure’ (le singole ‘cose’ della raffigurazione) ed una
spazialità della connessione della figura (o delle figure) nell’azione,
che già chiamiamo spazialità dell’‘immagine’. La tradizione ha parlato,
rispettivamente e impropriamente di spazialità assoluta e relativa[21]. Già qui si
profila la distinzione accennata di sovrapponibilità e di accostamento e di
ambiti semantico-sintattici.
Ma prima di entrare ancora più a fondo nello specifico di quelle che
abbiamo chiamato aree funzionali del linguaggio visivo (o della
visibilità ottica), diciamo che il prodotto morfologico di questo
linguaggio è sempre e comunque una struttura assemblata da regole (biologiche
e di apprendimento), mentre il suo prodotto di significazione è
sempre simbolo: “struttura simbolica”, dunque, sia a livello di
linguaggio mentale (ancora istintivo e inespresso), sia al livello figurativo
sovrastante e da quello generato; aree sovrapposte, quando del
linguaggio costituiscono la sua struttura semantica[22]; aree accostate,
quando ne costituiscono la struttura sintattica[23]. E con ciò si confermerebbe
il fatto che, se ad ogni lingua del mondo è sotteso lo stesso meccanismo di
manipolazione dei simboli, ogni lingua (ogni ‘stile’ linguistico) già nella sua
conformazione mentale, si presenta con questa dualità di struttura (semantica e
sintattica, appunto). Insomma: se nel linguaggio verbale, «un sistema di
regole è usato per ordinare i fonemi all’interno dei morfemi, indipendentemente
dal significato, e l’altro è usato per ordinare i morfemi all’interno delle
parole e dei sintagmi, specificandone il significato»[24], nel linguaggio
delle immagini l’organizzazione semantica e sintattica sembra passare
attraverso aree di visibilità, le quali o
si sovrappongono o si accostano in immagini complesse.
L’istinto del linguaggio sembra dunque essere «sotteso da una grammatica
universale, non riducibile tout court alla storia o all’apprendimento»[25]; la violazione
intenzionale delle norme – violazione, che costituisce la sostanza del pensiero
laterale[26] – è invece la
causa principale dell’insieme degli atti ‘creativi’ della mente e dei diversi
modi espressivi, prodotti dall’apprendimento e dal confronto con la cultura.
Selezione,
eliminazione, confronto: sulla costanza della forma. Semir Zeki elenca tre
distinti e separati processi del cervello visivo: la selezione delle
informazioni, l’eliminazione di quelle irrilevanti, il confronto
con quelle del passato: processi, che sono alla base del linguaggio
figurativo e servono a fissare il dato costante, la sostanza permanente
delle forme, il dato intrinseco al linguaggio, ma ancora non specifico
dell’opera figurativa.
La prima
considerazione da fare riguarda, dunque, la costruzione della costanza
dell’oggetto visivo. Il cervello è in grado di acquisire una conoscenza di
certi caratteri costanti, invarianti, permanenti degli
oggetti, al di là delle informazioni continuamente mutevoli provenienti da
essi. Questa osservazione di S. Zeki permea tutta l’impostazione neurobiologica
e implica che, per l’acquisizione della conoscenza del mondo esterno, la corteccia
cerebrale deve scartare la mutevolezza delle informazioni, per generare
quella costanza fisica dell’oggetto e per operare la sua implicita
categorizzazione, secondo forma, colore, movimento.
Questa costruzione della costanza è una precondizione della durevolezza
della forma dell’oggetto, della sua sostanza permanente (che si estende
all’opera figurativa stessa, ma non ha niente a che fare con la creatività
artistica, che la realizza e che vorrei mi fosse consentito di chiamare invece
“il segreto della forma”[27]: questo segreto,
secondo Schopenhauer, è ciò che resta sempre lasciato all’immaginazione (sia
dell’artista, sia del critico, sia del comune osservatore).
Se la forma è prodotta dal cervello (nella sua acquisizione di costanza,
invarianza e permanenza degli oggetti), non occorre fare appello all’idea
platonica o ad altre sintesi concettuali: questo raggiungimento di costanza
(che è sul piano neurofisiologico) lascia aperto il problema della costanza
come ‘universalità’ sul piano critico della forma dell’opera d’arte: qui c’è
una sorta di nemesi dell’operazione compiuta di scarto del mutevole,
perché l’ottenimento della generalità (universalità) si accompagna alla perdita
del particolare: la generalità-universalità è sempre anche (e per ciò stesso)
incompletezza e mancanza, una volta resa esplicita la forma ‘particolare’
ottenuta. Non la categorizzazione neurologica raggiunta, ma la perdita
del contingente (necessaria nella selezione delle informazioni, nell’eliminazione
delle irrilevanze e nel confronto con le altre informazioni attuali e
del passato) è ciò che resta così veramente implicito, con una ‘discesa’
nell’inespresso, con un’apertura all’ambito psicologico del mistero, nella
forma stessa.
Le ‘traduzioni’ di Zeki dell’idea platonica e così le traduzioni del
concetto categorizzante (sintesi del molteplice di tutte le situazioni, secondo
Kant e Hegel) e perfino le traduzioni (secondo Panofsky) della conservazione
dell’immagine nella memoria, le traduzioni, insomma nell’immagazzinamento
dell’essenziale operato dal cervello (ricerca di ciò che è costante e che vale
per oggetti e volti, ma anche per affetti o enti astratti, ma uguagliando
generalità e universalità), si manifestano ancora come senso di incompletezza e
di insoddisfazione. Ma l’oggettività ‘assoluta’, ritenuta come sintesi di tutte
le situazioni e dell’implicito michelangiolesco, non esiste, in quanto è sempre
punto di partenza per ulteriori atti creativi di nuove forme. La ricerca della
‘costanza’ della forma, sine qua non della raffigurabilità, è insieme un
fallimento, è quel vuoto, quel mistero, che però è anche il punto più alto
dell’atto artistico.
Gli attributi della
visione e le aree funzionali” della
pittura: le sette aree funzionali della pittura, desumibili dal Libro della
pittura di Leonardo, sono riconducibili ai quattro ‘attributi’ della
visione elencati da Zeki: sotto il suo concetto di forma c’è la
composizione e la sua divisibilità (dall’unità di visione al più complesso
sintagma spaziale), la figura e l’immagine, il disegno, la matericità stessa; sotto
il colore si articolano i suoi gradienti e la luce; sotto la profondità,
la spazialità e la prospettiva, con i loro modi, e la dimensione stessa della
superficie dell’opera, comprendendovi anche la cornice; sotto il movimento,
infine, la sua raffigurazione.
Specializzazione
funzionale e parallelismo: l’ipotesi di Zeki è che la ‘strategia’
sviluppata dal cervello per acquisire una conoscenza sulle proprietà permanenti
degli oggetti, consiste in una “specializzazione funzionale”, dal
momento che diverso è il “meccanismo richiesto” per ottenere conoscenza
su certe proprietà permanenti: quello per avere conoscenza dell’indice di
riflessione (e pertanto conoscenza del colore) diverso da quello richiesto
invece per ottenere conoscenza di altre proprietà permanenti (per esempio la
forma o il movimento).
La “specializzazione
funzionale” apre il problema della integrazione dei risultati delle
operazioni intraprese dalle differenti aree specializzate per generare
l’immagine visiva unificata nel cervello. Il problema dell’integrazione dei
risultati, conseguenza della “specializzazione funzionale”, richiede
che le cellule nelle differenti aree visive (che registrano differenti
attributi della scena visiva) interagiscano fra di loro.
Parallelismo (semantico
e sintattico) e problemi di unificazione: il fatto che gli attributi
della visione, elencati da Zeki (forma, colore, movimento, profondità), non
siano isolabili tra loro, ma che agiscano in parallelo e che esista una
elaborazione (inseparabilmente di percezione e di conoscenza) e
che unitaria sia l’immagine risultante, ma non il processo, né l’area
visiva, tutto ciò suggerisce (nell’unità) una distinzione di piani di
formazione, che riterrei riconducibili l’uno alla verticalità della
costruzione semantica e l’altro alla orizzontalità della strutturazione
sintattica del linguaggio figurativo: in particolare, a sovrapposizioni
(semantiche) di attributi in parallelo di aree visive e ad accostamenti (sintattici),
di azioni in sequenza, secondo un ‘processo’, anche temporale, delle aree
visive.
Zeki ha teorizzato che
il cervello possa acquisire ‘conoscenza’ delle proprietà invarianti
di oggetti e di superfici solo se è in grado di scartare l’informazione
continuamente mutevole. Si deve notare che ‘conoscenza’ è qui concetto
specifico di conoscenza visiva prodotta, tanto a livello di istinto
biologico, attraverso la struttura neuronale del “linguaggio visivo”,
quanto al livello di un esplicito linguaggio figurativo.
Si deve anche notare che la registrazione in parallelo di
attributi diversi in aree diverse non è
indice assoluto di contemporaneità di azione operativa (sussiste una
temporalità, in cui il colore precede la forma e questa il movimento), ma
costituisce invece una contemporanea loro ‘sovrapposizione’ di risultato
(semantica); inoltre, la contiguità (sintattica), affidata al ‘percorso’ e alla
differenza temporale dell’azione operativa, richiede una diversa integrazione
dei ‘risultati’, per ottenere l’unificazione dell’immagine
visiva (è dunque possibile una contemporaneità di risultati – una semantica –
pur in presenza di azioni in successione temporale).
L’unificazione dell’immagine richiede una strategia, tanto anatomica
quanto funzionale, usata dalla corteccia visiva. Si stabilisce, in effetti, una
comunicazione diretta e reciproca, sia fra le cellule, sia anche con
le aree centrali della visione[28], dalle quali le
cellule ricevono l’input visivo. I gruppi di cellule hanno, in effetti, stabilità
operativa a seconda della risposta, che
può essere alta, bassa e con graduazioni fra questi estremi.
Quindi, la sintesi
unificante dell’immagine dipende dall’attività di intensità diverse delle
cellule nelle diverse aree visive (pertanto, dalla sincronia o meno). Il
percepito è dunque risultato dell’attività di più aree reciprocamente connesse.
Uno stimolo non può raggiungere la consapevolezza visiva a meno che non
sia soddisfatta la condizione sopra indicata dell’intensità delle cellule. È
quanto dire che il problema della visione è problema di conoscenza e di
consapevolezza visiva.
In
sintesi: la contemporaneità o la differenza temporale di azione può combinarsi
o meno ad una diversa integrazione (temporale) dei risultati (sintassi) – fermo
restando il parallelismo della specializzazione funzionale – dal momento che
l’integrazione differita (e la sintassi) dipende dall’intensità di reazione delle
cellule (non dal tempo di percezione degli attributi), alla quale è connessa la
consapevolezza visiva, su cui si basa la sintesi unificante.
Modularità della visione; ancora semantica e sintassi. L’immagine visiva
(con forma, colore, movimento e profondità), in una sua precisa registrazione
spazio-temporale, viene assemblata e fornita dal cervello; e l’ipotesi di Zeki
è che sua funzione principale sia l’acquisizione di ‘conoscenze’,
realizzata in questo modo: (1) il cervello tratta i diversi attributi della
visione in sotto-aree, localizzate in zone distinte della corteccia visiva; (2)
la visione è poi organizzata in un “sistema modulare in parallelo”; (3)
infine, tutta l’elaborazione ‘estetica’ si basa su un “principio
di modularità”.
Queste aree
specializzate del cervello sono (a) processi attivi (e non passivi) della
visione, in cui (b) vedere e capire sono aspetti indissolubilmente connessi[29]; (c) ogni gruppo
di aree è specializzato in una proprietà (caratteristica) della visione: forma,
colore, movimento, profondità; (d) il collegamento alla corteccia
ottica del cervello, dalla retina (la “via ottica”) invia all’emisfero
posteriore i segnali per gli attributi della visione[30].
Gli attributi elaborati
dalle diverse aree devono formare l’immagine integrata: ma i tempi
relativi per percepire gli attributi sono diversi: prima viene il colore, poi
la forma, poi il movimento (e questo mostra ancora (a) l’esistenza di una “specializzazione
funzionale”, (b) articolata secondo una “gerarchia temporale”, (c)
che si sovrappone all’elaborazione “in parallelo”, per cui occorrono
tempi diversi per assolvere i compiti funzionali per ogni attributo.
Si deve ora ribadire
che questa temporalità (sovrapposta al parallelismo della
specializzazione funzionale), non certifica affatto la dualità di
temporalità sintattica e di spazialità semantica, perché la sintassi della
visione non è specializzata secondo il tempo di percezione degli attributi,
ma secondo la consapevolezza visiva che può conseguirne, cioè secondo le micro-coscienze
generate dalle attività elaborative dei sistemi percettivi degli attributi)[31].
Ogni area riceve e
trasmette, secondo l’ipotesi di Zeki, percezione e comprensione degli attributi
e non c’è area separata addetta alla sola comprensione; c’è quindi autonomia,
sia quando le aree vedono sia quando comprendono. Ma l’area V1 e le aree
esterne a V1 non hanno capacità di confronto (p. es., per quanto riguarda il
colore, tra luce di una superficie e luce delle superfici circostanti)[32].
La visione consiste
dunque di molti eventi micro-coscienti, ciascuno connesso all’attività di una
data stazione; e l’esperienza consapevole non dipende da uno stadio
finale, che non esiste.
Zeki ha mostrato che
nel cervello visivo esistono almeno due sistemi di riconoscimento delle forme:
uno per gli oggetti in moto e uno, in gran parte indipendente dall’altro, per
gli oggetti fermi. Esiste, insomma, un sistema multiplo di elaborazione,
specializzato, tanto da poter distinguere nella stessa forma le varianti
statiche da quelle dinamiche.
Quanto al colore,
anch’esso è il risultato di un confronto operato dal cervello tra due
componenti delle lunghezze d’onda: (a) quella della luce riflessa da una data
superficie, (b) quella della luce riflessa dalle superfici circostanti (il
colore è quindi un’operazione del cervello, non di un attributo del mondo
esterno)[33].
Il colore è
strettamente legato alla forma: tant’è che, a partire da variazioni
cromatiche, emergono forme nuove. Ma i colori, come s’è detto, sono costruzione
del cervello e la capacità di recepirli risiede nell’area V4[34].
Quanto al movimento, in caso di
lesione nell’area V5 (con acinetopsia), colore, profondità e forma sono
ancora visibili, ma solo se gli oggetti sono fermi: svaniscono (più o meno),
appena posti in movimento. La specificità funzionale, come conseguenza
di questo, è riferita da Zeki anche al deficit (così,
l’impossibilità di vedere l’aumento del livello di un liquido porta
all’incapacità di versarlo in un recipiente; altrettanto impossibile diventa la
percezione dell’arte cinetica dei ‘mobili’ di Calder).
Sulla costanza del colore. Occorre innanzitutto aver chiaro che, mentre
il neurobiologo ha la luce (la sua lunghezza d’onda) come riferimento
determinante per il colore, il pittore ha soltanto il colore per poter
determinare la luce.
Zeki rileva che i
colori non sono trattabili (studiabili) isolatamente, ma solo in relazione al modo
in cui la corteccia cerebrale tratta e studia gli altri ‘attributi’
della visione: forma, movimento, profondità (cioè spazio e
prospettiva).
Tutto ciò è parte
integrante della sua teoria della specializzazione funzionale”, nella
quale è supposto, come s’è detto, che i differenti ‘attributi’ sono
processi in parallelo, organizzati in parti anatomicamente
separate della corteccia visiva.
Il fatto che l’immagine
visiva sia unitaria, come s’è visto, non implica affatto un unitario
processo visivo o una singola area visiva.
La conoscenza e la
comprensione dei colori, devono essere intese (nel senso di Helmholtz) già a un
livello di inferenza inconscia (non solo come problemi di coscienza e di
autocoscienza). Per poter assegnare ad una superficie un colore costante
sotto diverse condizioni di illuminazione, come ebbe a dire ancora Helmholtz,
occorre “scartare l’illuminante”: in altri termini, occorre che la
visione del colore implichi più di una ricezione passiva delle impressioni
sensoriali dalla retina: occorre, appunto, una “inferenza inconscia”.
È l’indissolubilità di
colore e lunghezza d’onda della luce che presuppone quanto s’è detto sulla
condizione di “scarto dell’illuminante”; in altri termini, la condizione
di una costanza sotto diverse condizioni[35].
Movimento e arte cinetica.
Figura e immagine si riferiscono alla forma, sono
riconducibili ad essa. Ma cos’è il movimento? Una cosa è il movimento
reale degli oggetti e la sua percezione; altra cosa è la raffigurazione del
movimento nella pittura. L’area V5 è selettiva al movimento e alla direzione
con un verso. Ma qui tutte le cellule sono indifferenti al colore e molte anche
alla forma, con preferenza per dimensioni piccole, mentre nell’area V3 le
cellule hanno spesso esigenze quanto alla forma e reagiscono meglio al
movimento di una linea con orientazione specifica.
Marcel Duchamp, come ci
ricorda Zeki, ha cercato la morfologia del mutamento (Il passaggio da
vergine a sposa – La sposa denudata dai suoi scapoli [Il grande vetro] – Nudo
che scende una scala – Ruota di bicicletta, che è un “ready-made”, che
chiamò ‘mobile’ – e, più vicini all’assimilazione del movimento, i Rotorliefs).
Così Giacomo Balla (Dinamismo di un cane al guinzaglio – Bambina che corre sul balcone) e
ancora Ettore Bugatti e Francis Picabia (Macchina che gira veloce – Parata
amorosa). Anche Boccioni ha usato mezzi statici per suggerire il
moto (La città che sale). Ma solo con i Mobiles (così
chiamati da Duchamp) di Calder, il movimento diventa effettivo.
Non si sapeva
ancora che il movimento è un processo visivo separato; né è ancora chiaro come
il cervello colleghi i movimenti e trasformi il mobile in una unità, o come e
dove il cervello attribuisca una componente estetica, specialmente a questo
genere di lavori, dove i ‘mobiles’ (nel loro insieme di parti sconnesse) non
dipendono quasi affatto dalla forma.
E solo con il francese
Isaia Leviant (Enigma, con raggi e circonferenze che appaiono
rotanti in direzioni diverse e cambianti direzione) che il movimento non è
oggettivamente parte dell’opera (come nei Mobiles), ma creazione del
cervello. È come se l’area V5 imponga in Enigma proprietà fenomeniche,
che oggettivamente non esistono.
Secondo Zeki, movimento
e colore sarebbero funzioni di livelli (ontogeneticamente)
anteriori.
La mia ipotesi - sulla
questione se ogni modularità di attributo generi una sua estetica sul
piano del linguaggio figurativo - è che, se ogni modularità può costituire
contributi a un senso estetico (p. es.: per un’estetica del colore o del
ritratto o del movimento), la modularità invece è determinante nella costruzione
semantica e sintattica, in quanto dimostrazione indiretta della ‘esistenza’
di sovrapposizioni e stratificazioni degli attributi (costitutive
di semanticità) e della ‘possibilità’ di contiguità e di sequenza
temporale (costitutive di una loro sintassi).
Vedere e comprendere.
Secondo Zeki, non si può districare il processo del vedere senza
districare quello del comprendere ciò che si è visto: non c’è una
divisione reale tra vedere e comprendere.
William Molyneux, nato
cieco, riflettendo sul Saggio sull’intelletto umano di John Locke,
giustamente sottolineava che, potendo improvvisamente vedere, non si potrebbe
distinguere con la sola vista quello che si poteva invece distinguere con il
tatto (forme come cubi e sfere): occorre un processo di rieducazione;
l’innocenza pre-cerebrale è un mito: infatti, la connessione fra retina e area
V1 è sì geneticamente determinata, ma, anche se la connessione è integra fin
dalla nascita, essa non può funzionare se non c’è esposizione al mondo visivo
(cioè il nutrimento del collegamento). Ciò mostra che non esistono ‘idee’
indipendenti dal cervello. Perfino la forma è riconoscibile solo
attraverso il confronto con quanto già visto; e questo è impossibile per
chi sia cieco dalla nascita[36].
Forma e campo
recettivo. Cezanne e Mondrian si sono chiesti se esistano aspetti universali
della ‘forma’; in sostanza, se esistono elementi che siano costitutivi di
tutte le forme e della loro rappresentazione cerebrale; Zeki tenta di
rispondere a questo problema introducendo il concetto di “campo recettivo”
(come parte della superficie corporea, che, stimolata, dà luogo alla reazione
di una cellula cerebrale): ogni cellula avrebbe un proprio “campo recettivo”
corrispondente a una parte dello spazio visivo; così ci sono cellule selettive
per le linee e selettive anche all’orientamento (anche al verso,
oltre che alla direzione, ma in misura sempre minore, fino ad una loro
ortogonalità, dove cessa la selezione); e così ancora, c’è reazione ad ‘angoli’
opportunamente orientati; e poi, già citati, gli stimoli agli oggetti “in
movimento”; insomma, esiste una neurofisiologia delle linee
orientate. Ma siamo ancora lontani dal comprendere ‘come’ il cervello
percepisca l’opera intera, attribuendovi inoltre qualità estetiche[37].
Simbolicità. Se i
linguaggi sono, come teorizzato da Steven Pinker, prodotti di un ‘istinto’
biologico, cioè di una competenza istintiva, presente sia nei linguaggi
delle parole che in quelli delle immagini o dei suoni[38]: cioè, se i
linguaggi sono prodotti di una tendenza della mente - darwinianamente intesa (legata a fattori sia
genetici, sia di apprendimento e di maturazione) - ad acquistare la capacità di
un uso ‘simbolico’ (nel senso in cui il ragno può usare la sua
ragnatela), e se il comprendere
(non autoriflessivo), specifico dell’agire del cervello visivo, è anche
un categorizzare implicito degli oggetti: allora la comprensione visiva
è anche un “simbolizzare implicito”; questa comprensione, non
necessariamente autoriflessiva, già a livello visivo deve essere ‘simbolica’:
simbolicità certamente pre-verbale, per un verso, ma anche
pre-linguistica rispetto al livello esplicito del linguaggio figurativo:
simbolicità, come capacità della stessa sua ‘organizzazione’ neuronale;
capacità pre-linguistica, in quanto pronta, predisposta a diventare linguaggio
figurativo, cioè ad essere il ‘prodotto’ dell’istinto biologico, che
è il linguaggio.
La riflessione sulle
opere più moderne è legata alla maggiore semplicità di queste dal punto di
vista neurologico e quindi può risultare più analitica. Ma non è chiaro perché,
da un punto di vista neurologico, venga distinta l’arte astratta da quella figurativa e narrativa, dove per astrazione
si intende quella non iconica (cioè non rappresentante e non
simbolizzante oggetti: quella, con cui sono escluse le astrazioni di oggetti,
come nel cubismo o nell’arte cinetica).
Introdotti così nei particolari del linguaggio delle immagini, tentiamo
di abbozzarne la mappa delle aree funzionali, che ha necessariamente e
imprescindibilmente un doppio punto d’osservazione: quello fisico-materiale
del fare e dei suoi ingredienti (che rinvia all’approccio cellulare, genetico e
molecolare e all’osservazione del comportamento degli elementi) e quello simbolico-formale
(che apre all’osservazione del comportamento globale e delle relative proprietà
emergenti: ma non del modo in cui quelle proprietà vengano ad emergere).
Sotto il punto
d’osservazione degli ingredienti fisico-materiali – per quel che riguarda la
pittura (linguaggio di immagini) – all’immagine mentale (che è una sorta
di intenzione immaginativa, attiva e operante nella mente), può
corrispondere la produzione di una immagine reale, che ha una sua visibilità
ottica (a cui presiede la vista) e porta con sé un significato.
Di fatto, l’immagine reale può avere molti significati, così come alla
determinazione di un significato si può far corrispondere una infinità di
immagini reali: potremo parlare, allora, rispettivamente di significati
omoeidetici - per analogia con le omonimie - e di immagini sineidetiche
– per analogia con le sinonimie. Qualunque aspetto assuma, una figura
femminile con una pesca in mano può essere sempre anche (fra l’altro)
una personificazione della ‘verità’; nel secondo caso, invece, ad
un simbolo di ‘vittoria’, poniamo, può corrispondere una moltitudine di
immagini diverse[39].
Nel linguaggio figurativo, s’è detto sopra che l’organizzazione
semantica e sintattica dell’opera attraversa le “aree della visibilità”; ciò
non esclude affatto la divisibilità dell’organizzazione della visione;
tuttavia, l’intenzione visiva di tale divisione non è esplicitata
secondo regole (come accade nel linguaggio verbale, che ordina fonemi entro
monemi e questi entro parole e sintagmi), ma segue piuttosto modalità
individuali di approccio (e richiede
corrispettive modalità di approccio critico, che le confermino),
rendendo impossibile la fissazione a priori dell’inizio e della fine delle
parti di questa divisibilità[40]. È come se il
linguaggio, a questo punto, saltasse una sua necessità organizzativa
precostituita e si avventurasse direttamente e individualmente nella gestione
culturale e sociale del significato e del discorso. Possiamo quindi dire che,
certamente, la visione (nella visibilità ottica) è costituita di unità
di “visione ottica”, cioè di unità che chiameremo ‘eidemi’,
che si costituiscono in “unità di figura” (unità spaziali più
ampie dell’opera), connesse anche alla sua composizione dinamica, dove entra in
gioco la struttura geometrica della ‘composizione’ dell’opera, la quale
organizza lo spazio complessivo in unità spaziali minori, in cui la
composizione stessa si articola. L’insieme delle figure, a sua volta,
costituisce un’unità connessa, nella composizione – che chiameremo l’immagine
– e, a sua volta ancora, nell’unità complessiva delle parti ‘compositive’, l’intero
sintagma spaziale (una spazialità sintagmatica)[41]. Ma il tutto
senza una apparente ‘grammatica’ di regole precostituite.
Abbiamo distinto la spazialità ‘intrinseca’ delle figure e la
spazialità dell’immagine (della connessione delle figure, nell’azione).
Con una distinzione più sottile, che coinvolge ora tutto il sintagma
spaziale, si può specificare ulteriormente una spazialità fisica (a
volte anche solo strettamente geometrica)[42] ed una più
propriamente ottica: nella prima è il colore che, con l’insieme
dei suoi gradienti, producendo effetti di luce (gli effetti del gioco
coloristico, senza ‘fonte’ di luce, ma solo come prodotti della relatività
delle disposizioni dei colori), crea un suo effetto di spazialità,
chiamato per l’appunto ‘fisico’ (come, per esempio in Leonardo); e,
nella seconda, ottica, è la fonte di luce che, al contrario, a
restituire i ‘suoi’ colori: insomma, uno spazio ottico di luce come effetto
generato fisicamente dalla direzione prospettica dei colori, così come
l’altro spazio (quello fisico) era risultato di luce fisicamente
generata dai gradienti del colore. Con ciò il concetto di ‘luce’ non compare
più come elemento fisico autonomo: la luce viene sempre generata o dai
gradienti del colore o da una loro direzione prospettica.
Questa distinzione ‘spaziale’ rinvia all’area funzionale del colore e,
nella storia della pittura, alla grande divisione fra pittori coloristi e
pittori ottici, cioè – nella connessione di colore e luce – a quell’articolazione,
che – si dice nei trattati – vede il colore creare la luce (Leonardo, Poussin,
Delacroix, Constable) o, a contrario, il colore “creato” dalla luce
(Caravaggio, Vermeer).
Anche queste spazialità sono prodotti morfologici (cioè strutture
assemblate da regole) e, per altro verso, costituiscono sistemi simbolici.
A questa già più sottile distinzione di spazialità si devono aggiungere
forme più complesse e contemporanee: certamente quella che chiamo la spazialità
topologica (la spazialità, per esempio, di una recente fase della pittura
di E. Calabria), che costruisce uno spazio oggettivo variabile
determinato da centri attrattori di alterazione, cioè da tensori
di una spazialità fisica non lineare, che rinviano alla relatività e alle
conseguenti curvatore gravitazionali; ma, fra queste forme più complesse, va
annoverata anche quella spazialità che conviene chiamare di composizione e di
alterazione retinica (a cui si può certo associare il nome di Francis
Bacon), generata da deformazioni di origine psichica (e un conseguente spazio
soggettivo appunto), che richiede e determina vere e proprie deformazioni
(di origine retinica) della visione ottica.
L’opera (complessiva), come immagine reale – dal punto di
vista della sua costituzione fisico-materiale – contiene tutte le operazioni
del fare artistico, che la riflessione ha tentato in vario modo di raggruppare,
a cominciare da Leonardo: aree di funzionalità fisico-materiale, zone
operative, tutte coesistenti, compresenti possibili, semanticamente
sovrapposte: il disegno, il colore, la luce (che
abbiamo però ricondotto – in quanto solo indirettamente riproducibile – a
gradienti di colore oppure a colori in una direzione prospettica), e la prospettiva
(che pensiamo di ricondurre ad una “composizione dello spazio”), poi le
quattro modalità della spazialità (di cui s’è detto prima e che pensiamo
di ridurre a risultato della composizione delle cose sulla tela
bidimensionale: composizione, in cui è compreso il rapporto pieno-vuoto)[43]; infine, la matericità.
La ‘dimensione’ semantica di questo linguaggio figurativo è
caratterizzata dalla sovrapponibilità di quelle funzioni.
Dal punto di vista della funzionalità simbolico-formale, infine, l’opera
si può rappresentare come una mappatura
di funzioni dell’espressione (da non intendere come area del significato,
essendo esso l’oggetto di quelle significazioni espressive):
funzioni, che convenzionalmente conviene dividere in due campi: a) quello dell’espressione
in generale e b) quello delle influenze culturali.
Riepilogando, quindi, quanto alla costituzione fisico-materiale: sette
aree funzionali, desumibili da Leonardo ed elencate nel suo Libro di pittura[44], ― composizione
e sua divisibilità (dall’unità di visione al sintagma spaziale), con l’area
specifica dell’immagine, i modi della spazialità, le prospettive, il colore ed
i suoi gradienti, il disegno e la matericità: a cui vanno aggiunte, come
aree di effetto derivato, luce e movimento; ed infine la superficie (come
dimensione) e la cornice, per i loro effetti derivati sull’opera ― riducibili a
tre sole aree primarie: composizione. colore, matericità (più dimensione e
cornice). In questi termini si esplica tutto il linguaggio della figurazione
pittorica.
Queste aree, come s’è detto, sono connesse non ad albero, ma in modo
disarticolato: ognuna, in prima istanza, necessariamente collegata o
sovrapposta a tutte, pur essendo vero che nel ‘600 le considerazioni di
Marco Boschini sui pittori veneziani e di Roger de Piles su Rubens si
presentavano in un quadro di valutazione polemica attorno al disegno –
ritenuto fino ad allora principio d’insegnamento accademico e quindi,
nell’ambito delle assunzioni antiaccademiche nascenti, del tutto secondario
rispetto al colore: un’area separata e di propria autonoma esistenza.
Insomma, tutte le aree semantiche sembrano essere sovrapponibili in linea di
principio, salvo considerazioni storico-culturali.
Se torniamo allora al tentativo di delineare questo percorso
fisico-materiale a partire dall’opera, è da essa che si diramano le due aree
fondamentali della spazialità intrinseca delle figure e di connessione delle
immagini (ma si veda il
controesempio della spazialità relativa del movimento, che è intrinseca,
di figura, del cavallo che s’impenna, di Leonardo)[45]; e da esse, a
loro volta, tanto la spazialità fisica[46] (con il
richiamo all’area del colore e dei gradienti) quanto
quella ottica[47], della
prospettiva dei colori, che ci pongono di fronte al problema del rapporto
dello spazio con la prospettiva in generale[48] — geometrica
in senso stretto, quando vi sia un ben determinato punto di fuga, o di
valore ottico diffuso, come nel Veronese (Le nozze di Cana, con una rosa di
punti di fuga); inoltre la prospettiva ‘aerea’ (Piero della Francesca),
quella della ‘profondità’, specie nel manierismo[49], e la
prospettiva di uno spazio immaginario (come nel Caravaggio) o quelle
variabili (conseguenti alle spazialità topologiche e retiniche).
Se una prospettiva geometrica, su un
punto geometrico di fuga è ben visibile in Géricault (La zattera
della Medusa), quando essa è fondata su uno spazio di punti di fuga
(come nell’esempio del Veronese), a maggior ragione essa genera la necessità
d’un ‘percorso’ da compiere, interno all’opera, di una ‘temporalità’ sintattica
del colpo d’occhio e dell’analisi. La sintassi comincia ad esplicarsi sulla
base semantica dell’opera, nella dimensione della composizione, lungo il
percorso dello spazio (o dei suoi spazi e delle prospettive, in quanto
composizioni degli spazi), alla ricerca dell’origine della luce e quindi
nel dispiegamento dei colori o nella direzione (specificamente e
diversamente) prospettica dei colori, nell’indagine della consistenza materica:
fin qui una sintassi per così dire ‘corta’ nei suoi elementi, tutti di un
dispiegamento della semantica, a confronto con la ‘lunghezza’ degli elementi
semantici di questo linguaggio; ma sintassi ‘lunga’ invece, se si guarda alla
funzionalità simbolico-formale: perché qui si dispiega il racconto e il
significato di figure, immagini e sintagmi, come trascrizioni o rappresentazioni
o raffigurazioni: tutti denotazioni oggettive oppure espressione:
di impressioni soggettive (sensazioni e percezioni) oppure di invenzione
o di citazione.
Cosa vuol dire allora possedere un
linguaggio senza apparente grammatica di regole certe?
La ‘prospettiva’, in generale – come precedentemente annunciato –
pensiamo che debba essere vista come una “composizione dello spazio”; quindi
riteniamo che non sia una funzione primitiva, ma riducibile: e se lo spazio
dovesse essere il terreno in cui va compresa, ci si dovrebbe riferire a
Gombrich: «non si rappresenta mai lo spazio, ma le cose consuete in date
situazioni»[50] e concludere
che lo spazio è il risultato della composizione delle cose sulla tela
bidimensionale: esso è ricondotto
così alla composizione stessa.
Arriviamo, a questo
punto, all’area del colore, annunciata come inerente a quella della spazialità
e congiunta a quella della luce ed eventualmente al disegno.
Quanto alla connessione colore-luce, Ruskin difende la tesi di una pittura che
si occupa solo di luce e di colore, quali si riflettono sulla retina[51]; ma c’è una
modalità ‘direzionale’ (già sottolineata) di prospettiva di colore e una
modalità di gradienti di colore, in relazione con la luce, che
supportano collaterali effetti di spazialità. Si potrebbe dire, con Ruskin[52], che se, come
forma, la figura o l’immagine sono assolute nella loro inseità, il colore è
sempre relativo (in una gamma di gradienti), vale a dire che cambia per ogni
ulteriore aggiunta di colore: per cui non può esserci mai, in pittura,
una semplice trascrizione dal vero, piuttosto (come s’è visto) della
luce in colore[53]. Sicché la resa
dello spazio è anche resa in un rapporto di luce e ombra (quel che si
dice “resa del modellato”)[54]. Insomma il
colore, nei suoi gradienti, genera luce e questa genera spazio; e così la
spazialità è ricondotta tanto alla composizione delle cose, quanto anche alla
composizione dei colori.
Conseguentemente
Hogarth sostenne che l’ombra è indicazione di forma (vale a dire di spazio)
solo perché sappiamo da dove proviene la luce[55]. L’ombra è
colore, come la luce: il rapporto di colore tra luce e ombra rende (genera) la
forma-spazio, sia nel senso di Leonardo (che è un riferimento al “modellato”),
sia in quello di Caravaggio (che è un riferimento alla “provenienza della
luce”). Dove la luce ‘è’ generata dal colore (come gradienti di colore) c’è ipso
facto un colore della luce[56], che viene
‘evocato’ (e non copiato) attraverso quei “rapporti di colore” (quei
rapporti e contrasti tonali, che sono i gradienti), per cui è possibile
parlare di “colore locale” in rapporto alla “scala tonale” del
complesso dell’opera[57].
Ma c’è anche una relazione
tra la dimensione della superficie ed il colore, secondo la quale la resa
coloristica risulta diversa cambiando quella dimensione[58]. E come la dimensione
dell’opera influenza il colore e l’opera stessa, così è perfino la
cornice che ne influenza l’impressione complessiva[59].
I gradienti (le
modificazioni del colore) possono essere determinati (nei pittori coloristi)
tanto da un rapporto per così dire ‘mimetico’ della natura, quanto da
quell’equilibrio ‘decorativo’ che appartiene, questa volta di principio,
all’area della composizione[60]. Si potrebbero
quindi supporre due fonti generative dei gradienti: come fonte soggettiva
(culturale e citazionale) di equilibrio, nella composizione stessa, oppure come
trascrizione o rappresentazione o raffigurazione della visione (in una scala
sempre meno oggettiva della natura)[61].
Ma, come s’è già detto, la luce opera come creazione di spazio
prospettico del colore (nella pittura ottica), sebbene creata come spazio
prospettico del colore. Questo, per concludere (come ebbe a dire Cezanne) che
c’è una costitutiva impossibilità ad organizzare a priori l’opera, per il fatto
che è impossibile la previsione degli effetti reciproci dei suoi elementi[62].
Sulla traccia delle
aree di funzionalità incontriamo la citata composizione dell’opera, di
cui abbiamo supposto la connessione con le spazialità, la luce e il
colore; è evidente anche il rapporto agli stili, sempre presente anche
nelle forme più moderne e d’avanguardia. Abbiamo forme antiche quanto la
pittura stessa e forme prese in prestito anche da modalità lontane della
cultura, come il teatro ed anche il cinema. Per dare un elenco del tutto
sommario della composizione dell’opera, citeremo la verticalità
medievale e quelle forme di simmetria immediata, anch’essa medievale, ma
che si prolunga ben oltre nel tempo, fino a comprendere Luca Signorelli e il
Bramantino[63]; e ancora, la geometria
del cerchio, la sezione aurea, la composizione musicale, l’armatura
del rettangolo, le forme del dinamismo manieristico e barocco, fino
ai cosiddetti effetti-sorpresa di Degas, che influenzano tutto il secolo
XIX[64], e poi le “composizioni
tagliate” di Bonnard e le “composizioni sparse” (ad arazzo) di
Vuillard; poi il “ritorno alla geometria” del XX secolo e il tema dell’equilibrio
decorativo in generale (Matisse), dell’equilibrio organico di
Kandinskij, degli equilibri di grandezze, colori, volumi e, insomma, il
tema degli infiniti rapporti possibili delle parti (posizioni, colori, ecc.)
della pittura del XX secolo[65].
Quanto al movimento (anch’esso, come la luce, soltanto ‘reso’
dalla spazialità della connessione delle figure e nell’immagine, se si
escludono i mobiles di Caldor e il citato effetto ottico di Leviant),
ricordiamo che, nell’arte figurativa, la sua rappresentazione, fra tante
possibili modalità espressive, ha quella
delle simmetrie avvolgenti delle ‘S’ manieriste, che da El Greco passano
a Rubens, quella del contrapposto nello spazio e sul piano, presente sia
in Rubens che in Delacroix[66] ed altre
soluzioni ancora, come quelle del futurismo[67], oltre le
imitazioni della cinematografia (da Ejzenštejn in poi).
Si deve infine mettere
in elenco l’importante, anzi fondamentale area della matericità,
con la proprietà del rilievo[68], ma legata
anch’essa alla spazialità, al colore (o al disegno) e alla luce e tendente a
livellare il confine di separazione fra pittura e scultura. Decisiva, specie
nelle espressioni contemporanee della figurazione, essa è costruita sul ‘dripping’,
le spruzzature o sgocciolature di colore, prodotte da impulsi di casualità e
dalla tipica matericità dell’action painting[69], ma è
conseguenza anche di una visione culturalmente biologica dell’essere e
del divenire dell’uomo e della sua storia, dove si presenta attraverso le modalità
metaboliche che si generano attraverso centri (oggettivi) di ‘metamorfòsi’ interna all’opera (come è dato vedere nei lavori
di Calabria soprattutto).
Dal punto di
vista, invece, dei suoi costituenti simbolico-formali, l’opera si può
rappresentare come una mappatura di funzioni dell’espressione che
convenzionalmente abbiamo inteso dividere in due campi: a) quello dell’espressione
in generale e b) quello delle influenze culturali sull’espressione. Qui
si dispiega la sintassi del racconto pittorico: qui narrazione e
descrizione esplicitano il ‘significato’ dell’opera, la globalità dei
significati contenuti nella connessione delle aree semantiche. Il primo campo,
dove abbiamo raccolto l’espressione in generale, riguarda a)
l’espressione raggiunta attraverso la sensazione soggettiva; b)
l’espressione ottenibile attraverso la percezione diretta (o la memoria
percettiva); c) l’espressione prodotta attraverso l’invenzione (cioè
generata attraverso processi di “pensiero laterale”); d) infine
l’espressione ottenuta per citazione
culturale (anche attraverso una ricerca di analogie di trasversalità
linguistica, letteraria o musicale). Si tratta in questi casi di espressioni di
sentimenti e di altri atti soggettivi; e si tratta di ‘dati’ di un contenuto
metaforico, di significazione (appunto soggettiva), laddove
invece la rappresentazione (contrapponibile all’espressione) è,
in sé, un fatto di denotazione (oggettiva)[70].
Così come s’è distinto espressione
e rappresentazione, si deve mantenere la distinzione fatta, tra sensazione
e percezione[71].
L’area dell’espressione è riconducibile a quella della
significazione, che tocca il significato, sia come oggetto, o evento
rappresentato, sia come valore iconologico nel senso di Panofsky. Quest’area è
anche determinata dai rapporti dell’arte con la cultura complessiva e le
estetiche imperanti.
La ripartizione usata tra i campi della percezione e della sensazione
(e non si tratta mai di trascrizione del vero, ma invece sempre, come dice
Ruskin, di ‘trascrizione’ di luce in colore o, aggiungiamo, di colore in luce)[72], trova la sua ricongiunzione come campo dell’impressione (che è,
quindi, da intendere come sottospecie dell’espressione, che in sé, oltre
l’impressione stessa, contiene anche l’invenzione e la citazione)[73].
Tornando all’espressione, se con il ‘500 si fissano gli schemi
della visione artistica (dimensione, linea, colore, spazio, chiaroscuro, rilievo, movimento), è da quel momento che,
attorno a questi schemi, si viene a configurare un’idea di ‘stile’ (che
coinvolge tutto il mondo dell’espressione e le stesse categorie di
Leonardo) ed inoltre una rinnovata attenzione al segno in quanto segno
simbolico (cioè al carattere semantico del segno). E qui
determinante è stata l’influenza di Vasari (Vite), sia quanto ad
una lettura delle opere costruita e fondata sull’immediatezza (al di là
di tutte le formule della scuola) – modo di lettura, che peraltro, per le sue
implicite conseguenze antiscientifiche, un danno può avere apportato alla
critica successiva – sia quanto alla caratterizzazione dei modi artistici
(cioè, ancora una volta, allo stile).
Un’altra qualifica dell’espressione in generale è quella offerta
dal concetto di maniera, vicino a quello di stile, ma
storicamente nato nel ‘600, con il passaggio d’interesse dal modello
naturale al modello artistico (appunto, la cosiddetta ‘maniera’),
per un verso, e per il concomitante spostamento dell’interesse dal fare
artistico al tema tutto concettuale dell’idea (l’ideale) e
quindi, in particolare, ai temi della metafora e del simbolo[74].
Tutto questo complesso di argomenti, che appartiene ai costituenti simbolico-formali
dell’espressione artistica, come campo dell’espressione in generale, si
consolida poi nel secolo della ‘critica’ (nel suo senso kantiano:
Jonathan Richardson) e della nascita dell’estetica come scienza
filosofica autonoma (Baumagarten e Lessing)[75], anche come
consapevolezza della sua storia e delle influenze culturali, sia
interne ai modi del fare artistico, sia riflesse sull’espressione. Dalla fine
dell’‘800, e poi per tutto il XX secolo, si apre questo orizzonte di
riflessione “critico-estetica”, i cui momenti principali sono: la collocazione filosofica
dell’arte in quanto intuizione ed espressione (Croce e i crociani Schlosser e
Lionello Venturi), la presenza della psicologia (Gombrich), della psicanalisi
(Arnheim), dei contesti storico-sociologici (Antal, Benjamin, Hauser,
Argan)[76] e storico-geografici
(Francastel), le analisi dello strutturalismo (Fusco Brandi), degli
studi logico-linguistici (Nelson Goodman) e delle neuroscienze (Steven Pinker,
Semir Zeki e altri).
Per concludere: non c’è dubbio che c’è un profondo rapporto tra neuroscienze e arte (e
si veda L’istinto del linguaggio di Steven Pinker o La visione
dall’interno di Semir Zeki); ma anche i mutamenti nell’evoluzione
darwiniana, per effetto della selezione naturale, dell’adattamento e
dell’apprendimento, non bastano a dar conto della poetica del singolo artista;
insomma, anche la filogenesi (la storia evolutiva) – oltre l’ontogenesi – è pur
sempre percorso fondato sulla generalizzazione, per cui scienza ed arte
s’intersecano, ma si trascendono anche reciprocamente, ognuna sulla sua strada.
I
linguaggi, come s’è detto, sono prodotti di un istinto biologico, di una
competenza istintiva, che è una capacità di uso simbolico. Ma le loro differenze
(sia tra quelli verbali, che tra quelli visivi), tramite repliche, ereditarietà
delle imperfezioni, l’isolamento e le barriere culturali) non
bastano a spiegare Shakespeare, Bach o Leonardo.
La
neuroscienza ha incontrato nella pittura moderna, là dove prevalgono le forme
lineari e la ricerca del movimento, una più immediata possibilità di riscontro
dei fenomeni indagati, ma non sembra che possa mai superare la discontinuità
tra il generale e il particolare. Il salto a ciò che appartiene al pensiero
laterale resta insuperabile e abissale.
La
differenza fra linguaggio verbale ad albero (scandagliato da Chomsky e
costruito di sintagmi, nominali e verbali) e il linguaggio visivo, che si
costruisce invece per aree funzionali, semanticamente sovrapposte o
sintatticamente accostate, sembrerebbe non escludere la comune esistenza dei
tre processi del cervello rilevati da Zeki per la pittura (selezione – eliminazione
– confronto) e funzionali per
fissare il dato costante, per scartare il contingente e categorizzare
nei suoi ‘attributi’ (forme, colori, profondità e movimenti). Ma mi sia
concessa la supposizione che la costanza , necessaria, non sia poi
sufficiente, perché la generalità raggiunta si accompagna proprio alla perdita
del contingente e dell’implicito, alla comparsa tacita dell’indecifrabile
immanente: ed è qui che sta il segreto, che non è assolutamente
del contenuto, ma della forma e del colore e della
profondità e del movimento. Nella perdita del contingente e
dell’implicito compare, non solo la costanza del percepito, ma proprio l’unità
dell’opera e la sua validità nel tempo.
D’altronde, in termini di evoluzione darwiniana, la strategia sviluppata
per raggiungere la consapevolezza visiva della ‘costanza’, con la
specializzazione delle aree funzionali e il parallelismo degli
attributi (ogni attributo opera indipendentemente dagli altri), si esplica
tramite l’intensità della reazione percettiva (non come effetto del
tempo di percezione degli attributi). Questa riunificazione, così ottenuta
negli attributi, non secondo il tempo, ma secondo le micro-coscienze
‘visive’ in tal modo elaborate – ben oltre la costanza
dell’attributo, nella perdita del contingente e dell’implicito – questa
è l’unità nel tempo dell’opera.
La modularità
(la struttura modulare delle aree funzionali) può certo contribuire a certe
specifiche ‘estetiche’ (come la pittura tonale, per il colore, o le poetiche
del movimento), ma, assai più, essa presiede alla costruzione di una semantica
e di una sintassi.
Infine:
la differenza di approccio tra neurobiologia dei linguaggi e attività
linguistiche è del tutto evidente, per esempio nel rapporto tra luce e colore:
la neurobiologia ha la luce come riferimento per il colore; la pittura ha solo
il colore per determinare la luce, sia nei pittori coloristi, come Leonardo,
che opera sui gradienti del colore per dare la luce, sia nei pittori
ottici, come Caravaggio, che crea la luce tramite prospettive di colore.
Lo stesso
vale per il movimento: una cosa è la sua percezione, altra cosa la sua raffigurazione.
Balla o Bugatti o Picabia lo rappresentano nella staticità delle figure. Solo i
mobiles di Caldor (uscendo dalla rappresentazione bidimensionale
pittorica) lo raggiungono nella realtà; solo Leviant, sul piano della tela, ma
come puro effetto ottico.
La
prospettiva, nelle sue diverse costruzioni, è già oltre la filogenesi: è
creazione propria del pensiero laterale, dalla geometria di Géricault (La
zattera della medusa), all’ottica diffusa di Veronese (Le nozze di Cana), alla
prospettiva aerea di Piero, alla profondità dei manieristi, alla prospettiva
spaziale immaginaria di Caravaggio, alle topologie di Calabria, ai risultati di
patologia retinica di Bacon.
E, di
nuovo: come la luce, elemento primario del colore, anche la spazialità,
attributo istintivo del linguaggio per la neuroscienza, proviene dalla
prospettiva in quanto composizione nello spazio e questa (come dice Gombrich)
rimanda alla composizione delle cose. Magritte, con Carte blanche testimonia
come spazio e prospettiva siano derivabili per via compositiva.
Composizione, dunque, ancora una volta oltre la filogenesi, tutta nel
potere del pensiero laterale: verticalità, simmetrie immediate fino a Luca
Signorelli e al Bramantino, sezione aurea, armatura del rettangolo, simmetrie
avvolgenti (da El Greco a Rubens), i contrapposti di Rubens e Delacroix ed
altre, tante soluzioni ancora, fino alle ‘citazioni’ della cinematografia.
Così la
matericità (che peraltro non rientra ancora nelle ricerche di Zeki): dal Ponte
di Langlois alla Notte stellata di Van Gogh, dal dripping
alla action painting di Pollock e De Kooning, alla matericità biologica (con i suoi metabolismi e le
metamorfòsi) di Calabria.
[1] Linguaggio come sistema simbolico, secondo la dizione di Nelson Goodman, Languages
of Art, The Bobbs-Merrill, Inc., 1968, I linguaggi dell’arte, Il
Saggiatore, 19912.
[2] Steven Pinker, L’istinto del linguaggio. Come la mente crea il
linguaggio, Oscar Mondadori, Milano 1998, pp. 7-12. (D’ora in poi, SP,
seguito dal numero delle pagine).
[3] Semir
Zeki, A Vision of the Brain, Blackwell Scientific Publications, Oxford
1993; La visione dall’interno. Arte e cervello, Universale Bollati Boringhieri, Torino
2007.
[4] SP 353.
[5] SP 403-404.
[6] SP 420.
[7] SP 309.
[8] SP 314.
[9] SP
321-323.
[10] Quanto alla
localizzazione di tali capacità, per quel che riguarda la conformazione mentale
del linguaggio figurativo, si sa che l’emisfero destro è specializzato nelle
capacità spazio-visive e può servirsi dell’occhio e della mano, sebbene sia
sempre controllato dall’emisfero sinistro, che gestisce anche regole
astratte e strutture: SP 294.
L’area di Wernicke e le circonvoluzioni angolare e sovramarginale
(all’incrocio di tre lobi del cervello) «sono l’ideale per integrare flussi di
informazione sulle forme visive, i suoni e le sensazioni corporee
[…] e le relazioni spaziali (dal lobo parietale). Sarebbe un luogo
giusto per immagazzinare legami tra suono delle parole e le sembianze e la
geometria di ciò a cui si riferiscono»: SP 304. E si stanno ancora cercando di
delineare altre nuove regioni, «con la propria funzione o stile di
elaborazione, come le aree della visione specializzate nella forma degli
oggetti, nella disposizione spaziale, nel colore, nella visione
tridimensionale, nei movimenti […]»: SP 307.
[11] SP 232.
[12] SP 233.
[13] SP 269-270.
[14] Cfr. anche SP 270.
[15] SP 280.
[16] SP 64;
anche: SP e altri (1985), Visual Cognition, MIT © 1984; Shepard RN,
Cooper LA e altri (1986), Mental Images and Their Transformations, MIT ©
1984.
[17] SP 64.
[18] SP 69.
[19] SP 115.
[20] Anche qui, per quel
che riguarda il linguaggio verbale, SP 143.
[21] Sulla
spazialità assoluta (nella sua intrinsecità statica) e relativa (nel suo
dinamismo), cfr., p. es., Ch. Bouleau, La geometria segreta dei pittori,
Electa, Milano 1996; p. es.:, la figura di San Gerolamo, nell’omonima
opera di Antonello da Messina, Londra, National Gallery e, rispettivamente, l’immagine
dell’opera S. Gerolamo o, per essere più chiari, l’immagine della Lotta
tra il Giaurro e il Pascià (1835), in Delacroix, Coll. Gerard. Sulla
spazialità e le sue altre forme, fisica e ottica, topologica e retinica,
verticale, ecc., si veda oltre.
[22] Struttura semantica è quella che si riferisce ‘verticalmente’ alla realtà
esterna al linguaggio, costituendo un rapporto di significazione sincronico,
riferito all’oggetto del linguaggio significato.
[23] Struttura sintattica è quella che si riferisce ‘orizzontalmente’ alla
realtà interna del linguaggio, costituendo un rapporto di significazione
diacronico, riferito al soggetto linguistico significato.
[24] SP 228.
[25] SP 229. «L’impressione generale è che la grammatica
universale sia come il progetto corporeo archetipico che si riscontra in un
grande numero di animali di uno stesso phylum» [architettura corporea comune a
tutti gli anfibi, ecc.]. «Una volta
programmato, un parametro può produrre cambiamenti enormi nell’aspetto esterno
di una lingua»: ivi 229-230.
[26] Cfr. R.L. Gregory, Enciclopedia Oxford della mente, a cura di B.
Saraceno e E. Sternai, Oxford U.P. 1987, Sansoni, Firenze 1991, s.v. In breve,
viene chiamato “pensiero laterale”
(che niente ha a che fare con la ‘lateralizzazione’ cerebrale) l’insieme degli
atti ‘creativi’ della mente,
consistenti in operazioni di selezione tra gli infiniti schemi possibili della
percezione e di mutamento e trasformazione di alcuni fra essi mediante
“abitudini intenzionali” di provocazione, che costituiscono veri e propri mezzi
di sfida e di rottura degli schemi per così dire familiari, che definiscono la ‘norma’.
La lateralità rispetto alla norma è dunque la sostanza dell’atto creativo, che si traduce in atti pragmatici
assolutamente non conformi alle attese,
illogici in sé, anche se, ma solo ad una riflessione a posteriori, tali da apparire poi del tutto logici e, nella prassi successiva,
del tutto conformi.
[27] Quello che Zeki
chiama “acquisizione di conoscenza del mondo” (tramite generalizzazione
e ottenimento della ‘costanza’, della ‘durevolezza’, dell’‘essenzialità’,
della ‘stabilità’) è il conferimento di una “classe di appartenenza”,
di un “attributo essenziale” (senza di cui non è possibile cogliere le
proprietà del mondo esterno); ma è anche la base, la condizione per
evidenziare ciò che uno stato creativo intende e vorrebbe conferire alla
visione e all’espressione: cioè fissarla (conservarla e non perderla
più). Nella prima accezione, è il sostrato categoriale del
linguaggio in generale, che può peraltro intendere ed esplicitare anche il
‘transeunte’, la costanza del transeunte, la costanza ‘situazionale’
(come la definisce Zeki, a proposito di Vermeer, distinguendola da una costanza
‘implicita’, che riferisce invece a Michelangelo). Ma questa, direi, non
è più costanza di una classe di appartenenza, ma proprio quella costanza
della forma, sotto cui si possono unire insieme tutte le opere di Vermeer:
insomma la sua ‘poetica’, il suo ‘stile’, ciò che evidenzia un senso di ‘mistero’
per quelle forme di Vermeer, insomma il “mistero della sua forma”, che
travalica i singoli contenuti e le determinate situazioni. Non si tratta del
non detto di ogni situazione, non è l’ambiguità e il mistero dei
contenuti che possa far sentire e richiamare quel mistero della forma.
Allora si comprende che quella costanza situazionale, che Zeki
attribuisce a Vermeer, non differisce affatto dalla stessa costanza implicita,
che attribuisce a Michelangelo: anche qui l’ambiguità e il mistero non
riguardano i contenuti, ma proprio la forma: in questione non è
il mistero di ciò che avviene o che potrebbe avvenire; la questione non sta in
qualcosa che viene ‘lasciato’ all’interpretazione del contenuto, ma riposa in
ciò che è cercato e posto a tema dall’artista stesso e creativamente
‘colto’ nella realtà stessa: qualcosa che resta eternamente sconosciuto (non
nel contenuto dell’opera, bensì già immanente alla realtà: è ciò che crea poi
lo shock dell’osservatore e gli apre sollecitazioni nella memoria di
eventi passati e della sua cultura).
[28] Sono, del cervello, le aree V1 e V2 (posta attorno alla V1).
[29] Se vedere e capire sono aspetti connessi, non è esclusa la differenza: si
può infatti vedere qualcosa senza capire di che si tratta. Vi sono lesioni che
comportano acromatopsia (soprattutto nell’area V4), acinetopsia (soprattutto
nell’area V5), prosopagnosia (area del giro fusiforme), quindi incapacità di
vedere colori, movimento, fisionomie, sebbene con capacità di vedere e
comprendere qualcosa degli attributi che pur non possono essere identificati.
Non riconoscere, ma sapere quale è lo stato d’animo (vultanopsia), con una
lesione del giro fusiforme estesa anteriormente, porta anche all’incapacità di
riconoscere l’espressione del volto e coinvolta è l’amigdala, responsabile
nelle situazioni affettive (specie di paura).
[30] I segnali,
inviati all’area V1, sono ricevuti da cellule raggruppate, anatomicamente
distinte, con i blobs che reagiscono alle diverse lunghezze d’onda della
luce. Partono da V1 (zona di smistamento) o direttamente o indirettamente
all’area V2 (impropriamente chiamata corteccia dell’associazione visiva,
e posta attorno alla V1) e alle altre aree visive della corteccia (ognuna
diversamente specializzata).
Una cellula può essere
specializzata selettivamente al rosso, ma non agli altri colori, compreso il
bianco, e non reagisce neanche alla forma: insomma la selettività per un
attributo si associa alla indifferenza per gli altri. Questo è il “sistema
di specializzazione funzionale”. Il tipo dell’informazione da cogliere
o trascurare, per un attributo, è diverso dagli altri tipi per gli altri
attributi: anatomia e fisiologia sono già commisurati per rispondere ai
bisogni.
[31] Il cervello non
può seguire ciò che accade in tempo reale per intervalli brevissimi di tempo:
il cervello collega (o meno) i risultati dei ‘suoi’ sistemi di
elaborazione (quindi, con errori sul tempo reale). Questo risultato conferma il
fatto che i sistemi di elaborazione devono essere sistemi percettivi e
che, per una serie di sistemi di percezione ed elaborazione in parallelo, i
risultati devono essere ‘percetti’ differenti.
Ma la percezione è un
evento conscio: se percepiamo in istanti separati, ci sono micro-coscienze separate,
non sincronizzate fra loro. Allora ciò che deve essere o meno unificato sono le
micro-coscienze generate dalle attività dei sistemi percettivi (non
le diverse attività dei diversi sistemi percettivi).
Data l’autonomia, un
sistema può risultare compromesso, senza che ci siano effetti sul resto dei
sistemi. Questa autonomia dei diversi sistemi porta a concludere per una loro
“specializzazione funzionale (qui sintattica)”.
[32] Acromatopsia,
acinetopsia, prosopagnosia, che sono incapacità di vedere e di comprendere
rispettivamente colore, movimento, fisionomie, conservano
però una residua capacità di vedere e comprendere qualcosa degli attributi che
non possono essere identificati. Ciò si spiega con le molte ‘stazioni’ dei
sistemi di specializzazione (p. es., per il colore, le aree V1, V2, V4 e altre
ancora; per il movimento, le aree V1, V2, V5 e altre). Insomma, una lesione,
che lasci intatti livelli antecedenti del percorso visivo, consente ancora di
vedere e distinguere in certa misura. L’area V1, se lesa, ha un danno
più grave perché alimenta le altre aree
[33] L’agnosia
visiva per gli oggetti è il fallimento selettivo della capacità di
riconoscere oggetti fermi, ma non in moto (o viceversa). Quando c’è
discromatopsia o acromatopsia allora è il cervello che ha perso la capacità del
confronto tra luce di una superficie e luce delle superfici circostanti.
Lesioni in V1 corroborano l’ipotesi di una pluralità di sistemi visivi autonomi
per i vari attributi della visione (i ciechi per un danno a V1, tuttavia vedono
e capiscono comunque alcuni attributi,
p. es.: le forme in movimento: esiste, infatti, una via diretta dalla
retina all’area V5 del movimento, senza passare per l’area V1.
[34] Con una lesione
nell’area V4 anche la registrazione mnemonica viene cancellata. Quindi non
esiste, come s’è già detto, una rappresentazione ideale (in
senso platonico), separata e per tutti gli attributi visivi, basata su un’area
distinta, non legata a particolari attributi.
Se la lesione esiste anteriormente al
“giro fusiforme” del cervello, in modo da risparmiare V4, si ha prosopagnosia (non riconoscimento dei volti, incapacità di
adattare la percezione del volto al ‘ricordo’ specifico, immagazzinato nel
cervello), ma non acromatopsia (non riconoscimento dei colori): non c’è
insensibilità generalizzata (data la “specializzazione funzionale”), a meno che
la lesione non sia nell’area V1 (con cecità totale).
[35] Tuttavia (e qui
si nota anche la diversità di procedura nella costruzione “istintiva biologica”
del linguaggio visivo, da quella operata nell’esplicito linguaggio pittorico),
come s’è già detto, una cosa è la realtà fenomenica, dove la luce è
determinante per il colore; altra cosa la pittura, dove la luce è
indirettamente espressa dal colore.
[36] Istruttivo è il
caso di Victor (il ragazzo selvaggio dell’Aveyron, trovato nella foresta del
Tarn in Francia), che non riuscì mai a apprendere appieno il linguaggio.
[37] L’ipotesi è che le reazioni elettriche delle cellule non siano distribuite
uniformemente, ma raggruppate; e inoltre che la sincronizzazione delle
oscillazioni di cellule stia a segnalare la loro reazione allo stesso oggetto.
[38] SP, cit., 7-12.
[39] Nel linguaggio
verbale, al concetto operante nella ‘mente’ corrisponde una parola,
che ha un suono acustico, a cui presiede l’udito, e un significato:
una parola può avere molti significati, che sono omonimi fra loro, e ad
un significato possono corrispondere anche più parole, che sono allora sinonime
tra loro. Sempre nel linguaggio verbale il suono è costituito di unità di forma
acustica, i fonemi, che si costituiscono in unità di forma del
linguaggio verbale, cioè morfemi, che, a loro volta si costituiscono in
unità lessicali, cioè parole, che possono costituire - con i loro
affissi (prefissi e suffissi) – composizioni (nominali), cioè i sintagmi.
E. Panofsky (Il significato nelle arti visive, Einaudi, Torino
1962, pp. 31-44; inoltre Studi di iconologia. I temi umanistici nell’arte
del rinascimento, Einaudi, Torino 1975, pp. 16-17) precisa che si devono
distinguere tre gradi di ‘significato’; l’oggetto dell’interpretazione
significante può essere: α) il semplice soggetto primario o naturale,
il cui atto interpretativo è la semplice ‘descrizione’
preiconografica (e quanto occorre per l’interpretazione è la sola
esperienza pratica, per la quale basta lo studio delle ‘forme’ in cui sono
espressi oggetti ed eventi) o β) il soggetto convenzionale, secondario,
interpretato dall’ ‘analisi’ iconografica (e quanto occorre è una
conoscenza delle fonti, per la quale occorre uno studio dei concetti e dei temi
espressi mediante oggetti ed eventi) o ancora γ) il significato intrinseco
soggetto ad ‘interpretazione’ iconologica (e quanto occorre è,
allora, lo studio del modo in cui simboli e sintomi culturali sono espressi
mediante temi e concetti specifici); insomma, una molteplicità possibile di
atti interpretativi per un singolo oggetto, sia nell’intenzionalità
dell’artista (insita nell’opera), sia nell’interpretazione del critico; e si
tenga presente il diverso livello di tali gradi: dalla descrizione, all’analisi
iconografica (anche implicita), alla (parimenti implicita o meno)
interpretazione iconologica.
[40] Ma cfr. Hoffman DD, Richards WA, Parts of recognition, in Pinker
S, Visual Cognition, cit., pp.65-96.
[41] Questa quadripartizione quasi convenzionale riproduce quella
verbale, in fonemi, monemi, parole e sintagmi, che però è tutt’altro che
‘quasi’ convenzionale.
[42] Un esempio di
prospettiva non geometrica è dato in Veronese, Nozze di Cana (Parigi,
Louvre), con una rosa di fuochi prospettici. Quanto alla differenza tra fuoco
ottico-prospettico e struttura compositiva, cfr. Ch. Bouleau, op. cit.,
p. 239, con l’esempio di Géricault, La zattera della Medusa (Parigi,
Louvre), dove la struttura compositiva data dall’armatura del rettangolo è definita
dalla divisione in tre parti del lato superiore, mentre il fuoco è nell’angolo
superiore destro.
[43] E. H. Gombrich, Art and Illusion. A Study in the Psychology of
Pictorial Representation, cfr. Arte e illusione, Einaudi, Torino
1965, 48.
[44] Cfr. Leonardo
da Vinci, Libro di pittura, I, Parte secunda, De’ precetti del
pittore [ai frammenti [131]: Delle prime otto parti in che si divide la
pittura: «Tenebre, luce, corpo, figura, <colore>, sito, remozzione e
propinquità, Possene aggiongere a queste due altre, cioè moto e quiete, perché
tal cose è necessario figurare ne’ moti delle cose che si fingono nella
pittura» e [132]: Come la pittura si divide in cinque parti: «Le parti
della pittura sono cinque, cioè:: superfizie, figura, colore, ombra e lume, propinquità
e remozzione, o voi dire accrescimento e diminuzione, ch’è le due prospettive,
como nella diminuzione della quantità e la diminuzione delle notizie delle cose
vedute in longhe distanze, e quella de’ colori, e qual colore è quello che
prima diminuisce in pari distanzie, e quel che più si mantiene»; ma ancora
[136]: Delle parti della pittura: «La prima parte della pittura è che li
corpi con quella figurati si dimostrino rilevati e che li campi d’essi
circondatori con le lor distanze si dimostrino entrare dentro alle pariete,
dove tal pittura è generare, mediante le tre prospettive, cioè diminuzion delle
figure de’ corpi, diminuzion delle magnitudini loro e diminuzion de’ loro
colori. […]», Codice Urbinate lat. 1270 nella Biblioteca Apostolica Vaticana, a
cura di Carlo Perdetti, Trascrizione critica di Carlo Vecce, Giunti ed.,
Firenze 1995, p. 202]; cfr. anche Trattato della pittura (Roma 1984, n.
479).
[45] Cfr. in E.H. Gombrich, op. cit., Leonardo, Cavallo che s’impenna,
p. 213.
[46] Un esempio di spazialità fisica aerea in Pieter Bruegel il Vecchio, Giochi
di fanciulli, Vienna, Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie.
[47] Ottica è la
pittura di Antonello da Messina o quella di Piero della Francesca. Nell’ambito
di queste modalità fisiche e ottiche dello spazio si può collocare tanto la frontalità
rinascimentale quanto il tutto-tondo barocco.
[48] Prospettiva, secondo Leonardo caratterizzata dalla ‘diminuzione’ del
colore, delle notizie e della quantità.
[49] Per esempio in Michelangelo, nel Parmigianino , in El Greco o nella Donna
in piedi al clavicembalo, di Vermeer (Londra, National Gallery).
[50] E. H. Gombrich, op. cit., 289.
[51] E. H. Gombrich, op. cit.,
360.
[52] E. H. Gombrich, op. cit., 376.
[53] E. H. Gombrich, op. cit., 362.
[54] E. H. Gombrich, op. cit., 320
[55] E. H. Gombrich, op. cit., 326
[56] A cui allude E. H. Gombrich, op. cit., 44
[57] In proposito, E. H. Gombrich, op. cit., 54 e 59
[58] E. H. Gombrich, op. cit., 377
[59] E. H. Gombrich, op. cit., 378
[60] In particolare, cfr. E.H. Gombrich, op. cit.
[61] Sulla rappresentazione
pittorica, la conferma che sia solo il cervello a poter rappresentare l’oggetto
è offerta, secondo S. Zeki, dall’osservazione dell’opera di Magritte, Carte
blanche (la donna a cavallo fra i tronchi degli alberi), che è un’immagine
che non può rappresentare un oggetto, ma può farlo solo il cervello, che
lo ha osservato da molte angolazioni differenti. Ciò che si vede, opposto a ciò
che si percepisce, è “una sfida al senso comune”.
Sulla ricerca dell’essenziale
nel cubismo. Dopo la ‘rottura’ della prospettiva di Paolo Uccello e di Piero
della Francesca, si radicalizza il conflitto tra realtà e percezione (visto
sopra) e sull’unilateralità dell’immaginazione (visto sopra).
Così nel cubismo ‘primitivo’, la
possibilità di cogliere l’oggetto in tutte le sue parti sottolinea che, allo
scopo, la sua ricostruzione richiede l’eliminazione della luce, che
indicherebbe un istante particolare del tempo dell’esposizione, e della
prospettiva, che indicherebbe una particolare direzione nello spazio. Solo
il cervello può conservare l’identità in una molteplicità di tempo e di spazio.
Tutto mostra il fallimento nella possibilità di
imitare quanto fa il cervello.
[62] I cubisti seguirono la via opposta: rigettarono in blocco la tradizione
della fedeltà al vero e tentarono di rifarsi all’“oggetto reale” che, per
raggiungerlo, schiacciarono sul piano. Cfr. E. H. Gombrich, op. cit.,
378-379.
[63] Di Signorelli vale assolutamente ricordare il bellissimo Pan e i
pastori [L’educazione di Pan] (opera purtroppo andata distrutta nella
Berlino dell’ultimo conflitto mondiale) con la sua simmetria di figure chiare
(avanti) e scure (dietro), di alternanze di giovani e vecchi, con la figura
centrale di Pan, fra le cui corna si colloca la luna, e la figura distesa, che
unisce tutta la composizione. E del Bramantino, Filemone e Bauci
(Colonia) con la sua ripetizione di triangoli, nella forma dell’albero, del
muro e della tovaglia annodata.
[64] Cfr. Ch. Bouleau, op. cit., p 243.
[65] Cfr. Ch. Bouleau, op. cit.
[66] Rubens, Caccia al leone, München, Alte Pinakothek; Delacroix, Lotta
tra il Giaurro e il Pascià, 1827 e 1835, Coll. Gerard: cfr. Ch. Bouleau,.op. cit.
[67] Ad esempio, Giacomo Balla, Dinamismo di un cane al guinzaglio,
1912.
[68] Cfr. le
differenze fra le marine di un Turner, (Arrivo a Venezia) e di un
Vermeer (Veduta di Delft, 1660-61, L’Aia) o di Van Gogh con se stesso (Il ponte di
Langlois, marzo 1888, Amsterdam, Rijksmuseum) e Notte stellata (New
York, The Museum of Modern Art).
[69] J. Pollock e W. De Kooning, soprattutto.
[70] Cfr. Nelson Goodman, op. cit., pp. 48 e 52, 80-88.
[71] E. H. Gombrich, op. cit., 361
[72] E. H. Gombrich, op. cit., 362
[73] Nei modi della
retorica antica, l’impressione (la comunicazione dei concetti figurati –
termine, le cui regole furono riscoperte nel ‘500 – nella sua derivazione dalla
sensazione soggettiva) era uno dei modi della elocutio; ma – per la sua
parte di derivazione dalla percezione oggettiva – era anche uno dei modi della imitatio
(in sostanza la classica mimesis, condannata da Platone nel X° libro
della Repubblica, in quanto imitazione di una realtà, che è già copia
del mondo delle idee) ed anche della stessa inventio (intesa nel ‘500
come creazione delle forme naturali: un creare, che farà dire, polemicamente, a
Picasso: io non cerco, trovo). Se vi aggiungiamo la actio
(l’azione come contenuto di un racconto), abbiamo l’elenco di quei modi. Non
resterebbe che la dispositio, cioè quella funzione necessaria alla
costruzione delle immagini, selezionandone le forme: in sostanza coincidente
con i modi della composizione, quale la si può desumere da Leonardo.
[74] Giovanni Paolo
Lomazzo (morto proprio nel 1600), ma soprattutto Federico Zuccari concepiscono
un’analisi non più basata su criteri scientifici, come nel ‘400, ma su criteri
appunto di ‘idealità’, che sfociano nell’ideale di bellezza (Raffaello o
Annibale Carracci): ideale, che Giovan Pietro Bellori vuole incarnato in
Nicolas Poussin. Sulla rivoluzione antiaccademica quanto al ruolo autonomo
del colore rispetto al disegno s’è già detto.
[75] La storia dell’arte diventa studio delle opere, attraverso le opere stesse
e non attraverso la ‘vita’ dell’artista (Mengs e Winckelmann) e nasce il
critico specializzato (mediatore tra artista e pubblico), portatore di un
giudizio di valore sull’opera, e un movimento di critica sostenuto da grandi
letterati (Baudelaire, Apollinaire, Breton) e da profondi conoscitori, fra cui
Rumohr, Passavant, Cavalcaselle, Moretti, Adolfo Venturi e poi Berenson, Longhi
e Zeri.
Il campo della percezione diretta e mnestica sarà sottoposto (alla
metà del XX° secolo) alla lente della psicologia della percezione visiva
(Gombrich), mentre quello dell’impressione in generale (a partire dalla
fine dell’‘800) darà luogo a una teoria della pura ‘visibilità’
come conoscenza artistica del reale (Fiedler, Von Marées, Hildebrand) e alla
sua applicazione storiografica (Wölflin), con la formulazione di una grammatica
di categorie visive e di costanti linguistiche formali, quali chiavi universali
e senza tempo dell’interpretazione dello sviluppo artistico. Questo orizzonte
teorico si allargherà fino all’idea di una intenzionalità espressiva,
valida per le varie epoche (a cui si riferisce il concetto di ‘Kunstwollen’
sostenuto da Riegl), e poi all’esplosione degli studi di iconografia e iconologia,
a partire dall’idea di una storia dell’arte come storia della cultura
(Burckhardt) o come storia dello spirito (Dvořak), e poi all’opera
metodologica di Aby Warburg, fondatore degli studi di iconologia, con
l’enorme contributo di Panofsky sul ‘significato’ nel contesto
storico-sociale (i suoi studi di iconografia ed iconologia).
[76] Mutamenti di funzione (sociale, ecc.) danno luogo a mutamenti di forma.
Cit. in E. H. Gombrich, op. cit., 179.
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