giovedì 7 febbraio 2013

La struttura del linguaggio figurativo.



Alberto Gianquinto

 

La struttura del linguaggio figurativo.
Il sistema simbolico[1] delle immagini
Lateralità e prelinguismo


     Non sono neuroscienziato, ma ritengo le ricerche di Steven Pinker, Semir Zeki ed altri, che si appoggiano alla biologia evolutiva di Darwin, alla psicologia di William James e alla linguistica di Chomsky, le più promettenti e affidabili per una loro possibile estensione, dai linguaggi verbali a quelli dei suoni e della musica, a quelli delle immagini, a proposito dei quali ultimi credo si possa sostenere ora la possibilità di affrontare il problema di un rinnovo della critica delle arti figurative.
     Vorrei qui parlare di linguaggi come prodotti di un ‘istinto’ biologico, intendendo con quest’ultimo termine una competenza istintiva, presente sia nei linguaggi delle parole che in quelli delle immagini o dei suoni[2]: cioè, la tendenza della mente, darwinianamente intesa (legata a fattori sia genetici che di apprendimento e maturazione), ad acquistare la capacità di un uso simbolico, proprio nel senso in cui un ragno può usare la sua ragnatela.
     Cercherò di presentare questa prospettiva biologica del linguaggio, con l’incremento decisivo delle ricerche di Semir Zeki nel campo della visione e delle riflessioni sull’arte figurativa[3], direttamente come contesto della mia operazione di ripensamento del linguaggio figurativo e come prodotto di quel punto di vista neurobiologico,  tanto da rendere i due aspetti inseparabili.
     Il primo punto da considerare è la spiegazione darwiniana dell’unicità del linguaggio umano, che muove da un’ipotesi di evoluzione non “a scala”, con l’uomo in cima ad essa, ma di quell’evoluzione chiamata “a cespuglio”, secondo la quale l’uomo non è un prodotto evolutivo dello scimpanzé, ma, assieme ad esso, di un antenato comune; e questi due antenati, non dalla scimmia, ma con essa, di un antenato ancora più lontano. Ciò pone l’essere umano ed il suo linguaggio in una situazione di unicità, che porta a chiedere quale sia la causa di questo procedere.           
     Senza entrare più a fondo nel merito, diciamo che si è arrivati a comprendere come, oltre al modo e al tempo-luogo dell’evoluzione, ci sia anche una causa di essa, nel fatto che l’evoluzione delle specie muta nel tempo per effetto di una selezione naturale, cioè per effetto della discendenza con modificazione: sicché, causa dell’evoluzione è la selezione naturale di ogni specie-insieme, con proprietà di adattamento: cioè, con proprietà di moltiplicazione (o autocopiatura), di  variazione (o replica imperfetta) e di ereditarietà (o imperfezione di copiatura, che si ripresenta nelle copie successive).
     L’unicità del linguaggio umano è il risultato di questo processo evolutivo modificato dalla selezione naturale. Come ricorda Pinker, il linguaggio è risultato di piccoli miglioramenti casuali, conservati e concentrati, ciò che è accaduto per l’occhio, a partire da corpi senza occhi, ma con sole membrane sensibili alla luce[4].
     Anche psicologia e sociologia evoluzionistica si fondano sui lavori di Darwin, di William James e di Chomsky: in tal senso ogni apprendimento è reso possibile da un qualche meccanismo innato, attraverso moduli regolati da leggi specifiche, la cui organizzazione è prodotto della selezione naturale, quindi con funzioni utili. La ‘cultura’ stessa è un processo di coordinamento di uomini e menti, conforme a questa ipotesi psico-sociologica evoluzionistica[5]. Anche il linguaggio musicale e quello figurativo sono unici e risultati di evoluzione e selezione naturale.
     Possiamo allora dare per assodato che il linguaggio umano, in tutte le sue tre forme fondamentali, gode di questa unicità; ed aggiungiamo ora che momento proprio e, per così dire interno, a tale unicità, non solo è quella specificità simbolica che assegniamo alla sua forma (figurazione o sonorità musicali o verbalità), ma anche quella interna ad ognuna di tali forme linguistiche, che chiamiamo possibilità di creatività o di pensiero laterale. Come?
     Sostiene Pinker che la maggior parte delle pratiche culturali – quindi anche la pittura  sono capacità (tecnologie) costituite per esercitare moduli mentali progettati all’origine per funzioni adattattive specifiche[6]. Consideriamola una definizione neurobiologica della pittura.
     Veniamo così all’istinto linguistico e alla sua organizzazione nella mente. L’ipotesi di Pinker è che questo istinto sia niente più che una possibilità biologica, conforme alla causalità fisica[7]. I geni di questo linguaggio ancora tutto mentale - che peraltro ha potenzialità verbale, ma anche musicale e figurativa - sono allora stringhe di DNA, che nel cervello (in certi momenti e luoghi) codificano proteine (o provocano la trascrizione di proteine), le quali guidano, attraggono o attaccano neuroni a formare reti, le quali a loro volta, in combinazione con la sintonizzazione sinaptica (che ha luogo durante l’apprendimento), sono necessarie per trovare soluzioni ai problemi semantici e sintattici del linguaggio. La strutturazione di questa grammatica ‘mentale’ determina la configurazione dei linguaggi reali, sia verbali, che sonori e figurativi[8]. «La mia previsione è quindi – dice Pinker – che ci siano combinazioni particolarissime di geni […] dietro al narratore, al freddurista, al poeta …», a Dante, Marcel Proust, William Shakespeare, T.S. Eliot[9]; ma così anche a Bach e Wagner, a Leonardo e Michelangelo.
     Dunque, sappiamo ora perché e come possediamo un linguaggio ‘mentale’ comune, costituito di strutturazioni neuroniche a livello biologico (di selezione naturale e adattamento), e, nello stesso tempo, una sua strutturabilità individuale, visibile o udibile, fatta di organizzazioni (o sintonizzazioni) sinaptiche, come prodotti di apprendimento[10].
     Darwin ha espresso, secondo Pinker, l’intuizione chiave secondo cui, in sostanza, l’inglese è simile eppure diverso dal tedesco (così come, aggiungiamo, la pittura di Rubens può essere per certi aspetti simile eppure profondamente diversa da quella di Delacroix), per la stessa ragione per cui le volpi sono simili, sebbene diverse dai lupi, in quanto modificazioni di una comune specie antenata, nell’un caso, e di una comune lingua antenata, nell’altro[11].
     Le differenze tra le lingue, come tra le specie, sono effetti di tre processi di lungo periodo: (a) la variazione o replica imperfetta [mutazione per le specie, innovazione per le lingue], (b) l’ereditarietà dell’imperfezione [genetica per le specie, capacità di apprendere per le lingue], (c) l’isolamento [geografico per le specie, migrazioni e barriere sociali e culturali per le lingue][12].
     Insomma: quanto al rapporto fra organizzazione mentale e struttura linguistica, quali che siano le capacità grammaticali innate, queste sono troppo schematiche per poter generare da sole tutte le possibilità semantiche e le costruzioni sintattiche. Anche se i geni specificano il progetto di base del linguaggio, questo, come ogni altra attività, è un fatto essenzialmente sociale e culturale[13]: se per un bambino italiano la lingua sconosciuta è proprio l’italiano, mentre ‘conosciuta’ è la sua organizzazione  mentale, così per un Giotto bambino sconosciuta è ancora la pittura del ‘300, ma non la sua capacità figurativa mentale[14]. Come ricorda Pinker, non si nasce sapendo già usare il linguaggio: occorre sperimentare su di sé il funzionamento dei propri strumenti e imparare da genitori e maestri le particolarità di quel funzionamento[15].
     Con questi riferimenti pensiamo di avere dato un quadro minimale, sufficiente dell’approccio di fondo, qui condiviso, e possiamo introdurci nei particolari del linguaggio dell’immagine. Possiamo ancora aggiungere che il pensiero ‘visivo’ ha la capacità di usare «un sistema grafico mentale (c.vo nostro), con operazioni che ruotano, scandiscono, avvicinano, spostano, eseguono panoramiche, profilano contorni»[16]: un sistema di rappresentazioni del cervello visivo (cioè di immagini che il cervello - nella sua specializzazione visiva – fornisce in quanto ne ha competenza istintiva, biologica e funzionale): rappresentazioni “mentali”, senza ulteriore “rivestimento” di parole, ma con potenzialità di loro “scrittura” (esternazione reale). Il pensiero visivo a questo livello (di rappresentazione della mente, e quindi ancora possiamo dire prelinguistico, in quanto non prodotto nel linguaggio della scrittura della visibilità effettiva), è, come dice Pinker, una rappresentazione simbolica interna[17], una combinazione di segni simbolici[18] (ancora intenzionali e istintivi) e di ‘processori’, cioè di operatori (o meccanismi con un insieme fisso di riflessi), la cui combinazione produce forme intelligibili, per rappresentare immagini e relazioni tra di esse, secondo schemi ‘coerenti’: una grammatica, insomma, di combinazioni semantiche e di relazioni sintattiche di combinazioni, i cui protocolli interconnettono meccanismi molto diversi a livello cerebrale, ma coinvolgenti dall’occhio alla mano[19].
      Ci sarebbe, dunque, fin da bambini, una propensione a distinguere automaticamente una sintassi delle immagini, così come una morfologia semantica. Pertanto, dato che l’immagine, ora quella reale (quella prodotta), è puro simbolo, soggetto a processori e ad apprendimento di quanto viene con essa simbolizzato, la relazione tra la sua effettiva visibilità ottica (qualunque aspetto assuma) e il suo significato (oggettivo) è del tutto individuale ed arbitraria quanto ad aspettative di resa[20].
     Siamo ormai dentro il linguaggio figurativo e allora dobbiamo precisare subito la diversità della sua struttura, nel confronto con il linguaggio verbale. Quest’ultimo, strutturato ad albero, con il suo sintagma nominale e l’altro verbale e le sottoramificazioni (articolo, aggettivo, nome, verbo, sintagma nominale del verbo, ecc.); quello figurativo, strutturato invece da un insieme simultaneo di combinazioni di “aree funzionali” distinte, sovrapposte o accostate, non tutte insieme possibili. La distinzione fra aree sovrapposte o accostate specifica, nella mia ipotesi, i due ambiti, quello semantico e quello sintattico, del linguaggio figurativo.
     Per esempio, si è parlato di ‘cose’ e di ‘azioni’ da poter essere raffigurate; e la mente (e con ciò intendiamo l’operatività del cervello) è progettata per distinguerle, nel linguaggio delle immagini, per la loro spazialità: una spazialità, che diciamo intrinseca, delle singole ‘figure’ (le singole ‘cose’ della raffigurazione) ed una spazialità della connessione della figura (o delle figure) nell’azione, che già chiamiamo spazialità dell’‘immagine’. La tradizione ha parlato, rispettivamente e impropriamente di spazialità assoluta e relativa[21]. Già qui si profila la distinzione accennata di sovrapponibilità e di accostamento e di ambiti semantico-sintattici.
     Ma prima di entrare ancora più a fondo nello specifico di quelle che abbiamo chiamato aree funzionali del linguaggio visivo (o della visibilità ottica), diciamo che il prodotto morfologico di questo linguaggio è sempre e comunque una struttura assemblata da regole (biologiche e di apprendimento), mentre il suo prodotto di significazione è sempre simbolo: “struttura simbolica”, dunque, sia a livello di linguaggio mentale (ancora istintivo e inespresso), sia al livello figurativo sovrastante e da quello generato; aree sovrapposte, quando del linguaggio costituiscono la sua struttura semantica[22]; aree accostate, quando ne costituiscono la struttura sintattica[23]. E con ciò si confermerebbe il fatto che, se ad ogni lingua del mondo è sotteso lo stesso meccanismo di manipolazione dei simboli, ogni lingua (ogni ‘stile’ linguistico) già nella sua conformazione mentale, si presenta con questa dualità di struttura (semantica e sintattica, appunto). Insomma: se nel linguaggio verbale, «un sistema di regole è usato per ordinare i fonemi all’interno dei morfemi, indipendentemente dal significato, e l’altro è usato per ordinare i morfemi all’interno delle parole e dei sintagmi, specificandone il significato»[24], nel linguaggio delle immagini l’organizzazione semantica e sintattica sembra passare attraverso aree di visibilità, le quali o  si sovrappongono o si accostano in immagini complesse.
     L’istinto del linguaggio sembra dunque essere «sotteso da una grammatica universale, non riducibile tout court alla storia o all’apprendimento»[25]; la violazione intenzionale delle norme – violazione, che costituisce la sostanza del pensiero laterale[26] – è invece la causa principale dell’insieme degli atti ‘creativi’ della mente e dei diversi modi espressivi, prodotti dall’apprendimento e dal confronto con la cultura.

     Selezione, eliminazione, confronto: sulla costanza della forma. Semir Zeki elenca tre distinti e separati processi del cervello visivo: la selezione delle informazioni, l’eliminazione di quelle irrilevanti, il confronto con quelle del passato: processi, che sono alla base del linguaggio figurativo e servono a fissare il dato costante, la sostanza permanente delle forme, il dato intrinseco al linguaggio, ma ancora non specifico dell’opera figurativa.
      La prima considerazione da fare riguarda, dunque, la costruzione della costanza dell’oggetto visivo. Il cervello è in grado di acquisire una conoscenza di certi caratteri costanti, invarianti, permanenti degli oggetti, al di là delle informazioni continuamente mutevoli provenienti da essi. Questa osservazione di S. Zeki permea tutta l’impostazione neurobiologica e implica che, per l’acquisizione della conoscenza del mondo esterno, la corteccia cerebrale deve scartare la mutevolezza delle informazioni, per generare quella costanza fisica dell’oggetto e per operare la sua implicita categorizzazione, secondo forma, colore, movimento.
     Questa costruzione della costanza è una precondizione della durevolezza della forma dell’oggetto, della sua sostanza permanente (che si estende all’opera figurativa stessa, ma non ha niente a che fare con la creatività artistica, che la realizza e che vorrei mi fosse consentito di chiamare invece “il segreto della forma[27]: questo segreto, secondo Schopenhauer, è ciò che resta sempre lasciato all’immaginazione (sia dell’artista, sia del critico, sia del comune osservatore).
     Se la forma è prodotta dal cervello (nella sua acquisizione di costanza, invarianza e permanenza degli oggetti), non occorre fare appello all’idea platonica o ad altre sintesi concettuali: questo raggiungimento di costanza (che è sul piano neurofisiologico) lascia aperto il problema della costanza come ‘universalità’ sul piano critico della forma dell’opera d’arte: qui c’è una sorta di nemesi dell’operazione compiuta di scarto del mutevole, perché l’ottenimento della generalità (universalità) si accompagna alla perdita del particolare: la generalità-universalità è sempre anche (e per ciò stesso) incompletezza e mancanza, una volta resa esplicita la forma ‘particolare’ ottenuta. Non la categorizzazione neurologica raggiunta, ma la perdita del contingente (necessaria nella selezione delle informazioni, nell’eliminazione delle irrilevanze e nel confronto con le altre informazioni attuali e del passato) è ciò che resta così veramente implicito, con una ‘discesa’ nell’inespresso, con un’apertura all’ambito psicologico del mistero, nella forma stessa.
     Le ‘traduzioni’ di Zeki dell’idea platonica e così le traduzioni del concetto categorizzante (sintesi del molteplice di tutte le situazioni, secondo Kant e Hegel) e perfino le traduzioni (secondo Panofsky) della conservazione dell’immagine nella memoria, le traduzioni, insomma nell’immagazzinamento dell’essenziale operato dal cervello (ricerca di ciò che è costante e che vale per oggetti e volti, ma anche per affetti o enti astratti, ma uguagliando generalità e universalità), si manifestano ancora come senso di incompletezza e di insoddisfazione. Ma l’oggettività ‘assoluta’, ritenuta come sintesi di tutte le situazioni e dell’implicito michelangiolesco, non esiste, in quanto è sempre punto di partenza per ulteriori atti creativi di nuove forme. La ricerca della ‘costanza’ della forma, sine qua non della raffigurabilità, è insieme un fallimento, è quel vuoto, quel mistero, che però è anche il punto più alto dell’atto artistico.

     Gli attributi della visione e  le aree funzionali” della pittura: le sette aree funzionali della pittura, desumibili dal Libro della pittura di Leonardo, sono riconducibili ai quattro ‘attributi’ della visione elencati da Zeki: sotto il suo concetto di forma c’è la composizione e la sua divisibilità (dall’unità di visione al più complesso sintagma spaziale), la figura e l’immagine, il disegno, la matericità stessa; sotto il colore si articolano i suoi gradienti e la luce; sotto la profondità, la spazialità e la prospettiva, con i loro modi, e la dimensione stessa della superficie dell’opera, comprendendovi anche la cornice; sotto il movimento, infine, la sua raffigurazione.

     Specializzazione funzionale e parallelismo: l’ipotesi di Zeki è che la ‘strategia’ sviluppata dal cervello per acquisire una conoscenza sulle proprietà permanenti degli oggetti, consiste in una “specializzazione funzionale”, dal momento che diverso è il “meccanismo richiesto” per ottenere conoscenza su certe proprietà permanenti: quello per avere conoscenza dell’indice di riflessione (e pertanto conoscenza del colore) diverso da quello richiesto invece per ottenere conoscenza di altre proprietà permanenti (per esempio la forma o il movimento).
     La “specializzazione funzionale” apre il problema della integrazione dei risultati delle operazioni intraprese dalle differenti aree specializzate per generare l’immagine visiva unificata nel cervello. Il problema dell’integrazione dei risultati, conseguenza della “specializzazione funzionale”, richiede che le cellule nelle differenti aree visive (che registrano differenti attributi della scena visiva) interagiscano fra di loro.

     Parallelismo (semantico e sintattico) e problemi di unificazione: il fatto che gli attributi della visione, elencati da Zeki (forma, colore, movimento, profondità), non siano isolabili tra loro, ma che agiscano in parallelo e che esista una elaborazione (inseparabilmente di percezione e di conoscenza) e che unitaria sia l’immagine risultante, ma non il processo, né l’area visiva, tutto ciò suggerisce (nell’unità) una distinzione di piani di formazione, che riterrei riconducibili l’uno alla verticalità della costruzione semantica e l’altro alla orizzontalità della strutturazione sintattica del linguaggio figurativo: in particolare, a sovrapposizioni (semantiche) di attributi in parallelo di aree visive e ad accostamenti (sintattici), di azioni in sequenza, secondo un ‘processo’, anche temporale, delle aree visive.
     Zeki ha teorizzato che il cervello possa acquisire ‘conoscenza’ delle proprietà invarianti di oggetti e di superfici solo se è in grado di scartare l’informazione continuamente mutevole. Si deve notare che ‘conoscenza’ è qui concetto specifico di conoscenza visiva prodotta, tanto a livello di istinto biologico, attraverso la struttura neuronale del “linguaggio visivo”, quanto al livello di un esplicito linguaggio figurativo.
     Si deve anche notare che la registrazione in parallelo di attributi diversi in aree diverse  non è indice assoluto di contemporaneità di azione operativa (sussiste una temporalità, in cui il colore precede la forma e questa il movimento), ma costituisce invece una contemporanea loro ‘sovrapposizione’ di risultato (semantica); inoltre, la contiguità (sintattica), affidata al ‘percorso’ e alla differenza temporale dell’azione operativa, richiede una diversa integrazione dei risultati’, per ottenere l’unificazione dell’immagine visiva (è dunque possibile una contemporaneità di risultati – una semantica – pur in presenza di azioni in successione temporale).
     L’unificazione dell’immagine richiede una strategia, tanto anatomica quanto funzionale, usata dalla corteccia visiva. Si stabilisce, in effetti, una comunicazione diretta e reciproca, sia fra le cellule, sia anche con le aree centrali della visione[28], dalle quali le cellule ricevono l’input visivo. I gruppi di cellule hanno, in effetti, stabilità operativa a seconda  della risposta, che può essere alta, bassa e con graduazioni fra questi estremi.
     Quindi, la sintesi unificante dell’immagine dipende dall’attività di intensità diverse delle cellule nelle diverse aree visive (pertanto, dalla sincronia o meno). Il percepito è dunque risultato dell’attività di più aree reciprocamente connesse. Uno stimolo non può raggiungere la consapevolezza visiva a meno che non sia soddisfatta la condizione sopra indicata dell’intensità delle cellule. È quanto dire che il problema della visione è problema di conoscenza e di consapevolezza visiva.
     In sintesi: la contemporaneità o la differenza temporale di azione può combinarsi o meno ad una diversa integrazione (temporale) dei risultati (sintassi) – fermo restando il parallelismo della specializzazione funzionale – dal momento che l’integrazione differita (e la sintassi) dipende dall’intensità di reazione delle cellule (non dal tempo di percezione degli attributi), alla quale è connessa la consapevolezza visiva, su cui si basa la sintesi unificante.

     Modularità della visione; ancora semantica e sintassi. L’immagine visiva (con forma, colore, movimento e profondità), in una sua precisa registrazione spazio-temporale, viene assemblata e fornita dal cervello; e l’ipotesi di Zeki è che sua funzione principale sia l’acquisizione di ‘conoscenze’, realizzata in questo modo: (1) il cervello tratta i diversi attributi della visione in sotto-aree, localizzate in zone distinte della corteccia visiva; (2) la visione è poi organizzata in un “sistema modulare in parallelo”; (3) infine, tutta l’elaborazione estetica’ si basa su un “principio di modularità”.
     Queste aree specializzate del cervello sono (a) processi attivi (e non passivi) della visione, in cui (b) vedere e capire sono aspetti indissolubilmente connessi[29]; (c) ogni gruppo di aree è specializzato in una proprietà (caratteristica) della visione: forma, colore, movimento, profondità;  (d) il collegamento alla corteccia ottica del cervello, dalla retina (la “via ottica”) invia all’emisfero posteriore i segnali per gli attributi della visione[30].
     Gli attributi elaborati dalle diverse aree devono formare l’immagine integrata: ma i tempi relativi per percepire gli attributi sono diversi: prima viene il colore, poi la forma, poi il movimento (e questo mostra ancora (a) l’esistenza di una “specializzazione funzionale”, (b) articolata secondo una “gerarchia temporale”, (c) che si sovrappone all’elaborazione “in parallelo”, per cui occorrono tempi diversi per assolvere i compiti funzionali per ogni attributo.
     Si deve ora ribadire che questa temporalità (sovrapposta al parallelismo della specializzazione funzionale), non certifica affatto la dualità di temporalità sintattica e di spazialità semantica, perché la sintassi della visione non è specializzata secondo il tempo di percezione degli attributi, ma secondo la consapevolezza visiva che può conseguirne, cioè secondo le micro-coscienze generate dalle attività elaborative dei sistemi percettivi degli attributi)[31].
     Ogni area riceve e trasmette, secondo l’ipotesi di Zeki, percezione e comprensione degli attributi e non c’è area separata addetta alla sola comprensione; c’è quindi autonomia, sia quando le aree vedono sia quando comprendono. Ma l’area V1 e le aree esterne a V1 non hanno capacità di confronto (p. es., per quanto riguarda il colore, tra luce di una superficie e luce delle superfici circostanti)[32].
     La visione consiste dunque di molti eventi micro-coscienti, ciascuno connesso all’attività di una data stazione; e l’esperienza consapevole non dipende da uno stadio finale, che non esiste.  
     Zeki ha mostrato che nel cervello visivo esistono almeno due sistemi di riconoscimento delle forme: uno per gli oggetti in moto e uno, in gran parte indipendente dall’altro, per gli oggetti fermi. Esiste, insomma, un sistema multiplo di elaborazione, specializzato, tanto da poter distinguere nella stessa forma le varianti statiche da quelle dinamiche.
     Quanto al colore, anch’esso è il risultato di un confronto operato dal cervello tra due componenti delle lunghezze d’onda: (a) quella della luce riflessa da una data superficie, (b) quella della luce riflessa dalle superfici circostanti (il colore è quindi un’operazione del cervello, non di un attributo del mondo esterno)[33].
     Il colore è strettamente legato alla forma: tant’è che, a partire da variazioni cromatiche, emergono forme nuove. Ma i colori, come s’è detto, sono costruzione del cervello e la capacità di recepirli risiede nell’area V4[34].
     Quanto al movimento, in caso di lesione nell’area V5 (con acinetopsia), colore, profondità e forma sono ancora visibili, ma solo se gli oggetti sono fermi: svaniscono (più o meno), appena posti in movimento. La specificità funzionale, come conseguenza di questo, è riferita da Zeki anche al deficit (così, l’impossibilità di vedere l’aumento del livello di un liquido porta all’incapacità di versarlo in un recipiente; altrettanto impossibile diventa la percezione dell’arte cinetica dei ‘mobili’ di Calder).     

     Sulla costanza del colore. Occorre innanzitutto aver chiaro che, mentre il neurobiologo ha la luce (la sua lunghezza d’onda) come riferimento determinante per il colore, il pittore ha soltanto il colore per poter determinare la luce.
     Zeki rileva che i colori non sono trattabili (studiabili) isolatamente, ma solo in relazione al modo in cui la corteccia cerebrale tratta e studia gli altri attributi’ della visione: forma, movimento, profondità (cioè spazio e prospettiva).
     Tutto ciò è parte integrante della sua teoria della specializzazione funzionale”, nella quale è supposto, come s’è detto, che i differenti ‘attributi’ sono processi in parallelo, organizzati in parti anatomicamente separate  della corteccia visiva.
     Il fatto che l’immagine visiva sia unitaria, come s’è visto, non implica affatto un unitario processo visivo o una singola area visiva.
     La conoscenza e la comprensione dei colori, devono essere intese (nel senso di Helmholtz) già a un livello di inferenza inconscia (non solo come problemi di coscienza e di autocoscienza). Per poter assegnare ad una superficie un colore costante sotto diverse condizioni di illuminazione, come ebbe a dire ancora Helmholtz, occorre “scartare l’illuminante”: in altri termini, occorre che la visione del colore implichi più di una ricezione passiva delle impressioni sensoriali dalla retina: occorre, appunto, una “inferenza inconscia”.
     È l’indissolubilità di colore e lunghezza d’onda della luce che presuppone quanto s’è detto sulla condizione di “scarto dell’illuminante”; in altri termini, la condizione di una costanza sotto diverse condizioni[35].

     Movimento  e arte cinetica. Figura e immagine si riferiscono alla forma, sono riconducibili ad essa. Ma cos’è il movimento? Una cosa è il movimento reale degli oggetti e la sua percezione; altra cosa è la raffigurazione del movimento nella pittura. L’area V5 è selettiva al movimento e alla direzione con un verso. Ma qui tutte le cellule sono indifferenti al colore e molte anche alla forma, con preferenza per dimensioni piccole, mentre nell’area V3 le cellule hanno spesso esigenze quanto alla forma e reagiscono meglio al movimento di una linea con orientazione specifica.
     Marcel Duchamp, come ci ricorda Zeki, ha cercato la morfologia del mutamento (Il passaggio da vergine a sposa – La sposa denudata dai suoi scapoli [Il grande vetro] – Nudo che scende una scala – Ruota di bicicletta, che è un “ready-made”, che chiamò ‘mobile’ – e, più vicini all’assimilazione del movimento, i Rotorliefs). Così Giacomo Balla (Dinamismo di un cane al guinzaglio  Bambina che corre sul balcone) e ancora Ettore Bugatti e Francis Picabia (Macchina che gira veloce – Parata amorosa). Anche Boccioni ha usato mezzi statici per suggerire il moto (La città che sale). Ma solo con i Mobiles (così chiamati da Duchamp) di Calder, il movimento diventa effettivo.       
     Non si sapeva ancora che il movimento è un processo visivo separato; né è ancora chiaro come il cervello colleghi i movimenti e trasformi il mobile in una unità, o come e dove il cervello attribuisca una componente estetica, specialmente a questo genere di lavori, dove i ‘mobiles’ (nel loro insieme di parti sconnesse) non dipendono quasi affatto dalla forma.
     E solo con il francese Isaia Leviant (Enigma, con raggi e circonferenze che appaiono rotanti in direzioni diverse e cambianti direzione) che il movimento non è oggettivamente parte dell’opera (come nei Mobiles), ma creazione del cervello. È come se l’area V5 imponga in Enigma proprietà fenomeniche, che oggettivamente non esistono.
     Secondo Zeki, movimento e colore sarebbero funzioni di livelli (ontogeneticamente) anteriori.

     La mia ipotesi - sulla questione se ogni modularità di attributo generi una sua estetica sul piano del linguaggio figurativo - è che, se ogni modularità può costituire contributi a un senso estetico (p. es.: per un’estetica del colore o del ritratto o del movimento), la modularità invece è determinante nella costruzione semantica e sintattica, in quanto dimostrazione indiretta della ‘esistenza’ di sovrapposizioni e stratificazioni degli attributi (costitutive di semanticità) e della ‘possibilità’ di contiguità e di sequenza temporale (costitutive di una loro sintassi).

     Vedere e comprendere. Secondo Zeki, non si può districare il processo del vedere senza districare quello del comprendere ciò che si è visto: non c’è una divisione reale tra vedere e comprendere.
     William Molyneux, nato cieco, riflettendo sul Saggio sull’intelletto umano di John Locke, giustamente sottolineava che, potendo improvvisamente vedere, non si potrebbe distinguere con la sola vista quello che si poteva invece distinguere con il tatto (forme come cubi e sfere): occorre un processo di rieducazione; l’innocenza pre-cerebrale è un mito: infatti, la connessione fra retina e area V1 è sì geneticamente determinata, ma, anche se la connessione è integra fin dalla nascita, essa non può funzionare se non c’è esposizione al mondo visivo (cioè il nutrimento del collegamento). Ciò mostra che non esistono ‘idee’ indipendenti dal cervello. Perfino la forma è riconoscibile solo attraverso il confronto con quanto già visto; e questo è impossibile per chi sia cieco dalla nascita[36].

     Forma e campo recettivo. Cezanne e Mondrian si sono chiesti se esistano aspetti universali della ‘forma’; in sostanza, se esistono elementi che siano costitutivi di tutte le forme e della loro rappresentazione cerebrale; Zeki tenta di rispondere a questo problema introducendo il concetto di “campo recettivo” (come parte della superficie corporea, che, stimolata, dà luogo alla reazione di una cellula cerebrale): ogni cellula avrebbe un proprio “campo recettivo” corrispondente a una parte dello spazio visivo; così ci sono cellule selettive per le linee e selettive anche all’orientamento (anche al verso, oltre che alla direzione, ma in misura sempre minore, fino ad una loro ortogonalità, dove cessa la selezione); e così ancora, c’è reazione ad ‘angoli opportunamente orientati; e poi, già citati, gli stimoli agli oggetti “in movimento; insomma, esiste una neurofisiologia delle linee orientate. Ma siamo ancora lontani dal comprendere ‘come’ il cervello percepisca l’opera intera, attribuendovi inoltre qualità estetiche[37].

     Simbolicità. Se i linguaggi sono, come teorizzato da Steven Pinker, prodotti di un ‘istinto’ biologico, cioè di una competenza istintiva, presente sia nei linguaggi delle parole che in quelli delle immagini o dei suoni[38]: cioè, se i linguaggi sono prodotti di una tendenza della mente -  darwinianamente intesa (legata a fattori sia genetici, sia di apprendimento e di maturazione) - ad acquistare la capacità di un uso ‘simbolico’ (nel senso in cui il ragno può usare la sua ragnatela),  e se il comprendere (non autoriflessivo), specifico dell’agire del cervello visivo, è anche un categorizzare implicito degli oggetti: allora la comprensione visiva è anche un “simbolizzare implicito”; questa comprensione, non necessariamente autoriflessiva, già a livello visivo deve essere ‘simbolica’: simbolicità certamente pre-verbale, per un verso, ma anche pre-linguistica rispetto al livello esplicito del linguaggio figurativo: simbolicità, come capacità della stessa sua ‘organizzazione’ neuronale; capacità pre-linguistica, in quanto pronta, predisposta a diventare linguaggio figurativo, cioè ad essere il ‘prodotto’ dell’istinto biologico, che è il linguaggio.
     La riflessione sulle opere più moderne è legata alla maggiore semplicità di queste dal punto di vista neurologico e quindi può risultare più analitica. Ma non è chiaro perché, da un punto di vista neurologico, venga distinta l’arte astratta da quella  figurativa e narrativa, dove per astrazione si intende quella non iconica (cioè non rappresentante e non simbolizzante oggetti: quella, con cui sono escluse le astrazioni di oggetti, come nel cubismo o nell’arte cinetica).

     Introdotti così nei particolari del linguaggio delle immagini, tentiamo di abbozzarne la mappa delle aree funzionali, che ha necessariamente e imprescindibilmente un doppio punto d’osservazione: quello fisico-materiale del fare e dei suoi ingredienti (che rinvia all’approccio cellulare, genetico e molecolare e all’osservazione del comportamento degli elementi) e quello simbolico-formale (che apre all’osservazione del comportamento globale e delle relative proprietà emergenti: ma non del modo in cui quelle proprietà vengano ad emergere).
     Sotto il punto d’osservazione degli ingredienti fisico-materiali – per quel che riguarda la pittura (linguaggio di immagini) – all’immagine mentale (che è una sorta di intenzione immaginativa, attiva e operante nella mente), può corrispondere la produzione di una immagine reale, che ha una sua visibilità ottica (a cui presiede la vista) e porta con sé un significato. Di fatto, l’immagine reale può avere molti significati, così come alla determinazione di un significato si può far corrispondere una infinità di immagini reali: potremo parlare, allora, rispettivamente di significati omoeidetici - per analogia con le omonimie - e di immagini sineidetiche – per analogia con le sinonimie. Qualunque aspetto assuma, una figura femminile con una pesca in mano può essere sempre anche (fra l’altro) una personificazione della verità’; nel secondo caso, invece, ad un simbolo di ‘vittoria’, poniamo, può corrispondere una moltitudine di immagini diverse[39].
     Nel linguaggio figurativo, s’è detto sopra che l’organizzazione semantica e sintattica dell’opera attraversa le “aree della visibilità”; ciò non esclude affatto la divisibilità dell’organizzazione della visione; tuttavia, l’intenzione visiva di tale divisione non è esplicitata secondo regole (come accade nel linguaggio verbale, che ordina fonemi entro monemi e questi entro parole e sintagmi), ma segue piuttosto modalità individuali di approccio (e richiede  corrispettive modalità di approccio critico, che le confermino), rendendo impossibile la fissazione a priori dell’inizio e della fine delle parti di questa divisibilità[40]. È come se il linguaggio, a questo punto, saltasse una sua necessità organizzativa precostituita e si avventurasse direttamente e individualmente nella gestione culturale e sociale del significato e del discorso. Possiamo quindi dire che, certamente, la visione (nella visibilità ottica) è costituita di unità divisione ottica”, cioè di unità che chiameremo ‘eidemi’, che si costituiscono in “unità di figura” (unità spaziali più ampie dell’opera), connesse anche alla sua composizione dinamica, dove entra in gioco la struttura geometrica della ‘composizione’ dell’opera, la quale organizza lo spazio complessivo in unità spaziali minori, in cui la composizione stessa si articola. L’insieme delle figure, a sua volta, costituisce un’unità connessa, nella composizione – che chiameremo l’immagine – e, a sua volta ancora, nell’unità complessiva delle parti ‘compositive’, l’intero sintagma spaziale (una spazialità sintagmatica)[41]. Ma il tutto senza una apparente ‘grammatica’ di regole precostituite.
     Abbiamo distinto la spazialità ‘intrinseca’ delle figure e la spazialità dell’immagine (della connessione delle figure, nell’azione). Con una distinzione più sottile, che coinvolge ora tutto il sintagma spaziale, si può specificare ulteriormente una spazialità fisica (a volte anche solo strettamente geometrica)[42] ed una più propriamente ottica: nella prima è il colore che, con l’insieme dei suoi gradienti, producendo effetti di luce (gli effetti del gioco coloristico, senza ‘fonte’ di luce, ma solo come prodotti della relatività delle disposizioni dei colori), crea un suo effetto di spazialità, chiamato per l’appunto ‘fisico’ (come, per esempio in Leonardo); e, nella seconda, ottica, è la fonte di luce che, al contrario, a restituire i ‘suoi’ colori: insomma, uno spazio ottico di luce come effetto generato fisicamente dalla direzione prospettica dei colori, così come l’altro spazio (quello fisico) era risultato di luce fisicamente generata dai gradienti del colore. Con ciò il concetto di ‘luce’ non compare più come elemento fisico autonomo: la luce viene sempre generata o dai gradienti del colore o da una loro direzione prospettica.
     Questa distinzione ‘spaziale’ rinvia all’area funzionale del colore e, nella storia della pittura, alla grande divisione fra pittori coloristi e pittori ottici, cioè – nella connessione di colore e luce – a quell’articolazione, che – si dice nei trattati – vede il colore creare la luce (Leonardo, Poussin, Delacroix, Constable) o, a contrario, il colore “creato” dalla luce (Caravaggio, Vermeer).
     Anche queste spazialità sono prodotti morfologici (cioè strutture assemblate da regole) e, per altro verso, costituiscono sistemi simbolici.
     A questa già più sottile distinzione di spazialità si devono aggiungere forme più complesse e contemporanee: certamente quella che chiamo la spazialità topologica (la spazialità, per esempio, di una recente fase della pittura di E. Calabria), che costruisce uno spazio oggettivo variabile determinato da centri attrattori di alterazione, cioè da tensori di una spazialità fisica non lineare, che rinviano alla relatività e alle conseguenti curvatore gravitazionali; ma, fra queste forme più complesse, va annoverata anche quella spazialità che conviene chiamare di composizione e di alterazione retinica (a cui si può certo associare il nome di Francis Bacon), generata da deformazioni di origine psichica (e un conseguente spazio soggettivo appunto), che richiede e determina vere e proprie deformazioni (di origine retinica) della visione ottica.
     L’opera (complessiva), come immagine reale – dal punto di vista della sua costituzione fisico-materiale – contiene tutte le operazioni del fare artistico, che la riflessione ha tentato in vario modo di raggruppare, a cominciare da Leonardo: aree di funzionalità fisico-materiale, zone operative, tutte coesistenti, compresenti possibili, semanticamente sovrapposte: il disegno, il colore, la luce (che abbiamo però ricondotto – in quanto solo indirettamente riproducibile – a gradienti di colore oppure a colori in una direzione prospettica), e la prospettiva (che pensiamo di ricondurre ad una “composizione dello spazio”), poi le quattro modalità della spazialità (di cui s’è detto prima e che pensiamo di ridurre a risultato della composizione delle cose sulla tela bidimensionale: composizione, in cui è compreso il rapporto pieno-vuoto)[43]; infine, la matericità.
     La ‘dimensione’ semantica di questo linguaggio figurativo è caratterizzata dalla sovrapponibilità di quelle funzioni.
     Dal punto di vista della funzionalità simbolico-formale, infine, l’opera si può rappresentare come una mappatura  di funzioni dell’espressione (da non intendere come area del significato, essendo esso l’oggetto di quelle significazioni espressive): funzioni, che convenzionalmente conviene dividere in due campi: a) quello dell’espressione in generale e b) quello delle influenze culturali.
      Riepilogando, quindi, quanto alla costituzione fisico-materiale: sette aree funzionali, desumibili da Leonardo ed elencate nel suo Libro di pittura[44], ― composizione e sua divisibilità (dall’unità di visione al sintagma spaziale), con l’area specifica dell’immagine, i modi della spazialità, le prospettive, il colore ed i suoi gradienti, il disegno e la matericità: a cui vanno aggiunte, come aree di effetto derivato, luce e movimento; ed infine la superficie (come dimensione) e la cornice, per i loro effetti derivati sull’opera ― riducibili a tre sole aree primarie: composizione. colore, matericità (più dimensione e cornice). In questi termini si esplica tutto il linguaggio della figurazione pittorica.
     Queste aree, come s’è detto, sono connesse non ad albero, ma in modo disarticolato: ognuna, in prima istanza, necessariamente collegata o sovrapposta a tutte, pur essendo vero che nel ‘600 le considerazioni di Marco Boschini sui pittori veneziani e di Roger de Piles su Rubens si presentavano in un quadro di valutazione polemica attorno al disegno – ritenuto fino ad allora principio d’insegnamento accademico e quindi, nell’ambito delle assunzioni antiaccademiche nascenti, del tutto secondario rispetto al colore: un’area separata e di propria autonoma esistenza. Insomma, tutte le aree semantiche sembrano essere sovrapponibili in linea di principio, salvo considerazioni storico-culturali.
     Se torniamo allora al tentativo di delineare questo percorso fisico-materiale a partire dall’opera, è da essa che si diramano le due aree fondamentali della spazialità intrinseca delle figure e di connessione delle immagini  (ma si veda il controesempio della spazialità relativa del movimento, che è intrinseca, di figura, del cavallo che s’impenna, di Leonardo)[45]; e da esse, a loro volta, tanto la spazialità fisica[46] (con il richiamo allarea del colore e dei gradienti) quanto quella ottica[47], della prospettiva dei colori, che ci pongono di fronte al problema del rapporto dello spazio con la prospettiva in generale[48]geometrica in senso stretto, quando vi sia un ben determinato punto di fuga, o di valore ottico diffuso, come nel Veronese (Le nozze di Cana, con una rosa di punti di fuga); inoltre la prospettiva ‘aerea’ (Piero della Francesca), quella della ‘profondità’, specie nel manierismo[49], e la prospettiva di uno spazio immaginario (come nel Caravaggio) o quelle variabili (conseguenti alle spazialità topologiche e retiniche).
     Se una prospettiva geometrica, su un punto geometrico di fuga è ben visibile in Géricault (La zattera della Medusa), quando essa è fondata su uno spazio di punti di fuga (come nell’esempio del Veronese), a maggior ragione essa genera la necessità d’un ‘percorso’ da compiere, interno all’opera, di una ‘temporalità’ sintattica del colpo d’occhio e dell’analisi. La sintassi comincia ad esplicarsi sulla base semantica dell’opera, nella dimensione della composizione, lungo il percorso dello spazio (o dei suoi spazi e delle prospettive, in quanto composizioni degli spazi), alla ricerca dell’origine della luce e quindi nel dispiegamento dei colori o nella direzione (specificamente e diversamente) prospettica dei colori, nell’indagine della consistenza materica: fin qui una sintassi per così dire ‘corta’ nei suoi elementi, tutti di un dispiegamento della semantica, a confronto con la ‘lunghezza’ degli elementi semantici di questo linguaggio; ma sintassi ‘lunga’ invece, se si guarda alla funzionalità simbolico-formale: perché qui si dispiega il racconto e il significato di figure, immagini e sintagmi, come trascrizioni o rappresentazioni o raffigurazioni: tutti denotazioni oggettive oppure espressione: di impressioni soggettive (sensazioni e percezioni) oppure di invenzione o di citazione.
     Cosa vuol dire allora possedere un linguaggio senza apparente grammatica di regole certe?
     La ‘prospettiva’, in generale – come precedentemente annunciato – pensiamo che debba essere vista come una “composizione dello spazio”; quindi riteniamo che non sia una funzione primitiva, ma riducibile: e se lo spazio dovesse essere il terreno in cui va compresa, ci si dovrebbe riferire a Gombrich: «non si rappresenta mai lo spazio, ma le cose consuete in date situazioni»[50] e concludere che lo spazio è il risultato della composizione delle cose sulla tela bidimensionale:  esso è ricondotto così alla composizione stessa.
     Arriviamo, a questo punto, all’area del colore, annunciata come inerente a quella della spazialità e congiunta a quella della luce ed eventualmente al disegno. Quanto alla connessione colore-luce, Ruskin difende la tesi di una pittura che si occupa solo di luce e di colore, quali si riflettono sulla retina[51]; ma c’è una modalità ‘direzionale’ (già sottolineata) di prospettiva di colore e una modalità di gradienti di colore, in relazione con la luce, che supportano collaterali effetti di spazialità. Si potrebbe dire, con Ruskin[52], che se, come forma, la figura o l’immagine sono assolute nella loro inseità, il colore è sempre relativo (in una gamma di gradienti), vale a dire che cambia per ogni ulteriore aggiunta di colore: per cui non può esserci mai, in pittura, una semplice trascrizione dal vero, piuttosto (come s’è visto) della luce in colore[53]. Sicché la resa dello spazio è anche resa in un rapporto di luce e ombra (quel che si dice “resa del modellato”)[54]. Insomma il colore, nei suoi gradienti, genera luce e questa genera spazio; e così la spazialità è ricondotta tanto alla composizione delle cose, quanto anche alla composizione dei colori.
     Conseguentemente Hogarth sostenne che l’ombra è indicazione di forma (vale a dire di spazio) solo perché sappiamo da dove proviene la luce[55]. L’ombra è colore, come la luce: il rapporto di colore tra luce e ombra rende (genera) la forma-spazio, sia nel senso di Leonardo (che è un riferimento al “modellato”), sia in quello di Caravaggio (che è un riferimento alla “provenienza della luce”). Dove la luce ‘è’ generata dal colore (come gradienti di colore) c’è ipso facto un colore della luce[56], che viene ‘evocato’ (e non copiato) attraverso quei “rapporti di colore” (quei rapporti e contrasti tonali, che sono i gradienti), per cui è possibile parlare di “colore locale” in rapporto alla “scala tonale” del complesso dell’opera[57].
     Ma c’è anche una relazione tra la dimensione della superficie ed il colore, secondo la quale la resa coloristica risulta diversa cambiando quella dimensione[58]. E come la dimensione dell’opera influenza il colore e l’opera stessa, così è perfino la cornice che ne influenza l’impressione complessiva[59].
     I gradienti (le modificazioni del colore) possono essere determinati (nei pittori coloristi) tanto da un rapporto per così dire ‘mimetico’ della natura, quanto da quell’equilibrio ‘decorativo’ che appartiene, questa volta di principio, all’area della composizione[60]. Si potrebbero quindi supporre due fonti generative dei gradienti: come fonte soggettiva (culturale e citazionale) di equilibrio, nella composizione stessa, oppure come trascrizione o rappresentazione o raffigurazione della visione (in una scala sempre meno oggettiva della natura)[61].
     Ma, come s’è già detto, la luce opera come creazione di spazio prospettico del colore (nella pittura ottica), sebbene creata come spazio prospettico del colore. Questo, per concludere (come ebbe a dire Cezanne) che c’è una costitutiva impossibilità ad organizzare a priori l’opera, per il fatto che è impossibile la previsione degli effetti reciproci dei suoi elementi[62].
     Sulla traccia delle aree di funzionalità incontriamo la citata composizione dell’opera, di cui abbiamo supposto la connessione con le spazialità, la luce e il colore; è evidente anche il rapporto agli stili, sempre presente anche nelle forme più moderne e d’avanguardia. Abbiamo forme antiche quanto la pittura stessa e forme prese in prestito anche da modalità lontane della cultura, come il teatro ed anche il cinema. Per dare un elenco del tutto sommario della composizione dell’opera, citeremo la verticalità medievale e quelle forme di simmetria immediata, anch’essa medievale, ma che si prolunga ben oltre nel tempo, fino a comprendere Luca Signorelli e il Bramantino[63]; e ancora, la geometria del cerchio, la sezione aurea, la composizione musicale, l’armatura del rettangolo, le forme del dinamismo manieristico e barocco, fino ai cosiddetti effetti-sorpresa di Degas, che influenzano tutto il secolo XIX[64], e poi le “composizioni tagliate” di Bonnard e le “composizioni sparse” (ad arazzo) di Vuillard; poi il “ritorno alla geometria” del XX secolo e il tema dell’equilibrio decorativo in generale (Matisse), dell’equilibrio organico di Kandinskij, degli equilibri di grandezze, colori, volumi e, insomma, il tema degli infiniti rapporti possibili delle parti (posizioni, colori, ecc.) della pittura del XX secolo[65].
     Quanto al movimento (anch’esso, come la luce, soltanto ‘reso’ dalla spazialità della connessione delle figure e nell’immagine, se si escludono i mobiles di Caldor e il citato effetto ottico di Leviant), ricordiamo che, nell’arte figurativa, la sua rappresentazione, fra tante possibili modalità espressive, ha  quella delle simmetrie avvolgenti delle ‘S’ manieriste, che da El Greco passano a Rubens, quella del contrapposto nello spazio e sul piano, presente sia in Rubens che in Delacroix[66] ed altre soluzioni ancora, come quelle del futurismo[67], oltre le imitazioni della cinematografia (da Ejzenštejn in poi).
     Si deve infine mettere in elenco l’importante, anzi fondamentale area della matericità, con la proprietà del rilievo[68], ma legata anch’essa alla spazialità, al colore (o al disegno) e alla luce e tendente a livellare il confine di separazione fra pittura e scultura. Decisiva, specie nelle espressioni contemporanee della figurazione, essa è costruita sul ‘dripping’, le spruzzature o sgocciolature di colore, prodotte da impulsi di casualità e dalla tipica matericità dell’action painting[69], ma è conseguenza anche di una visione culturalmente biologica dell’essere e del divenire dell’uomo e della sua storia, dove si presenta attraverso le modalità metaboliche che si generano attraverso centri (oggettivi) di ‘metamorfòsi  interna all’opera (come è dato vedere nei lavori di Calabria soprattutto).
    
     Dal punto di vista, invece, dei suoi costituenti simbolico-formali, l’opera si può rappresentare come una mappatura di funzioni dell’espressione che convenzionalmente abbiamo inteso dividere in due campi: a) quello dell’espressione in generale e b) quello delle influenze culturali sull’espressione. Qui si dispiega la sintassi del racconto pittorico: qui narrazione e descrizione esplicitano il ‘significato’ dell’opera, la globalità dei significati contenuti nella connessione delle aree semantiche. Il primo campo, dove abbiamo raccolto l’espressione in generale, riguarda a) l’espressione raggiunta attraverso la sensazione soggettiva; b) l’espressione ottenibile attraverso la percezione diretta (o la memoria percettiva); c) l’espressione prodotta attraverso l’invenzione (cioè generata attraverso processi di “pensiero laterale”); d) infine l’espressione  ottenuta per citazione culturale (anche attraverso una ricerca di analogie di trasversalità linguistica, letteraria o musicale). Si tratta in questi casi di espressioni di sentimenti e di altri atti soggettivi; e si tratta di ‘dati’ di un contenuto metaforico, di significazione (appunto soggettiva), laddove invece la rappresentazione (contrapponibile all’espressione) è, in sé, un fatto di denotazione (oggettiva)[70].
     Così come s’è distinto espressione e rappresentazione, si deve mantenere la distinzione fatta, tra sensazione e percezione[71].
     L’area dell’espressione è riconducibile a quella della significazione, che tocca il significato, sia come oggetto, o evento rappresentato, sia come valore iconologico nel senso di Panofsky. Quest’area è anche determinata dai rapporti dell’arte con la cultura complessiva e le estetiche imperanti.
     La ripartizione usata tra i campi della percezione e della sensazione (e non si tratta mai di trascrizione del vero, ma invece sempre, come dice Ruskin, di ‘trascrizione’ di luce in colore o, aggiungiamo, di colore in luce)[72], trova la sua ricongiunzione  come campo dell’impressione (che è, quindi, da intendere come sottospecie dell’espressione, che in sé, oltre l’impressione stessa, contiene anche l’invenzione e la citazione)[73].
     Tornando all’espressione, se con il ‘500 si fissano gli schemi della visione artistica (dimensione, linea, colore, spazio, chiaroscuro,  rilievo, movimento), è da quel momento che, attorno a questi schemi, si viene a configurare un’idea di ‘stile’ (che coinvolge tutto il mondo dell’espressione e le stesse categorie di Leonardo) ed inoltre una rinnovata attenzione al segno in quanto segno simbolico (cioè al carattere semantico del segno). E qui determinante è stata l’influenza di Vasari (Vite), sia quanto ad una lettura delle opere costruita e fondata sull’immediatezza (al di là di tutte le formule della scuola) – modo di lettura, che peraltro, per le sue implicite conseguenze antiscientifiche, un danno può avere apportato alla critica successiva – sia quanto alla caratterizzazione dei modi artistici (cioè, ancora una volta, allo stile).
     Un’altra qualifica dell’espressione in generale è quella offerta dal concetto di maniera, vicino a quello di stile, ma storicamente nato nel ‘600, con il passaggio d’interesse dal modello naturale al modello artistico (appunto, la cosiddetta ‘maniera’), per un verso, e per il concomitante spostamento dell’interesse dal fare artistico al tema tutto concettuale dell’idea (l’ideale) e quindi, in particolare, ai temi della metafora e del simbolo[74].    
     Tutto questo complesso di argomenti, che appartiene ai costituenti simbolico-formali dell’espressione artistica, come campo dell’espressione in generale, si consolida poi nel secolo della ‘critica’ (nel suo senso kantiano: Jonathan Richardson) e della nascita dell’estetica come scienza filosofica autonoma (Baumagarten e Lessing)[75], anche come consapevolezza della sua storia e delle influenze culturali, sia interne ai modi del fare artistico, sia riflesse sull’espressione. Dalla fine dell’‘800, e poi per tutto il XX secolo, si apre questo orizzonte di riflessione “critico-estetica”, i cui momenti principali sono: la collocazione filosofica dell’arte in quanto intuizione ed espressione (Croce e i crociani Schlosser e Lionello Venturi), la presenza della psicologia (Gombrich), della psicanalisi (Arnheim), dei contesti storico-sociologici (Antal, Benjamin, Hauser, Argan)[76] e storico-geografici (Francastel), le analisi dello strutturalismo (Fusco Brandi), degli studi logico-linguistici (Nelson Goodman) e delle neuroscienze (Steven Pinker, Semir Zeki e altri).

     Per concludere: non c’è dubbio che c’è un profondo rapporto tra neuroscienze e arte (e si veda L’istinto del linguaggio di Steven Pinker o La visione dall’interno di Semir Zeki); ma anche i mutamenti nell’evoluzione darwiniana, per effetto della selezione naturale, dell’adattamento e dell’apprendimento, non bastano a dar conto della poetica del singolo artista; insomma, anche la filogenesi (la storia evolutiva) – oltre l’ontogenesi – è pur sempre percorso fondato sulla generalizzazione, per cui scienza ed arte s’intersecano, ma si trascendono anche reciprocamente, ognuna sulla sua strada.
     I linguaggi, come s’è detto, sono prodotti di un istinto biologico, di una competenza istintiva, che è una capacità di uso simbolico. Ma le loro differenze (sia tra quelli verbali, che tra quelli visivi), tramite repliche, ereditarietà delle imperfezioni, l’isolamento e le barriere culturali) non bastano a spiegare Shakespeare, Bach o Leonardo.
     La neuroscienza ha incontrato nella pittura moderna, là dove prevalgono le forme lineari e la ricerca del movimento, una più immediata possibilità di riscontro dei fenomeni indagati, ma non sembra che possa mai superare la discontinuità tra il generale e il particolare. Il salto a ciò che appartiene al pensiero laterale resta insuperabile e abissale.
     La differenza fra linguaggio verbale ad albero (scandagliato da Chomsky e costruito di sintagmi, nominali e verbali) e il linguaggio visivo, che si costruisce invece per aree funzionali, semanticamente sovrapposte o sintatticamente accostate, sembrerebbe non escludere la comune esistenza dei tre processi del cervello rilevati da Zeki per la pittura (selezione eliminazioneconfronto) e funzionali  per fissare il dato costante, per scartare il contingente e categorizzare nei suoi ‘attributi’ (forme, colori, profondità e movimenti). Ma mi sia concessa la supposizione che la costanza , necessaria, non sia poi sufficiente, perché la generalità raggiunta si accompagna proprio alla perdita del contingente e dell’implicito, alla comparsa tacita dell’indecifrabile immanente: ed è qui che sta il segreto, che non è assolutamente del contenuto, ma della forma e del colore e della profondità e del movimento. Nella perdita del contingente e dell’implicito compare, non solo la costanza del percepito, ma proprio l’unità dell’opera e la sua validità nel tempo.
     D’altronde, in termini di evoluzione darwiniana, la strategia sviluppata per raggiungere la consapevolezza visiva della ‘costanza’, con la specializzazione delle aree funzionali e il parallelismo degli attributi (ogni attributo opera indipendentemente dagli altri), si esplica tramite l’intensità della reazione percettiva (non come effetto del tempo di percezione degli attributi). Questa riunificazione, così ottenuta negli attributi, non secondo il tempo, ma secondo le micro-coscienzevisive’ in tal modo elaborate – ben oltre la costanza dell’attributo, nella perdita del contingente e dell’implicito – questa è l’unità nel tempo dell’opera.
     La modularità (la struttura modulare delle aree funzionali) può certo contribuire a certe specifiche ‘estetiche’ (come la pittura tonale, per il colore, o le poetiche del movimento), ma, assai più, essa presiede alla costruzione di una semantica e di una sintassi.
     Infine: la differenza di approccio tra neurobiologia dei linguaggi e attività linguistiche è del tutto evidente, per esempio nel rapporto tra luce e colore: la neurobiologia ha la luce come riferimento per il colore; la pittura ha solo il colore per determinare la luce, sia nei pittori coloristi, come Leonardo, che opera sui gradienti del colore per dare la luce, sia nei pittori ottici, come Caravaggio, che crea la luce tramite prospettive di colore.
     Lo stesso vale per il movimento: una cosa è la sua percezione, altra cosa la sua raffigurazione. Balla o Bugatti o Picabia lo rappresentano nella staticità delle figure. Solo i mobiles di Caldor (uscendo dalla rappresentazione bidimensionale pittorica) lo raggiungono nella realtà; solo Leviant, sul piano della tela, ma come puro effetto ottico.
     La prospettiva, nelle sue diverse costruzioni, è già oltre la filogenesi: è creazione propria del pensiero laterale, dalla geometria di Géricault (La zattera della medusa), all’ottica diffusa di     Veronese (Le nozze di Cana), alla prospettiva aerea di Piero, alla profondità dei manieristi, alla prospettiva spaziale immaginaria di Caravaggio, alle topologie di Calabria, ai risultati di patologia retinica di Bacon.
     E, di nuovo: come la luce, elemento primario del colore, anche la spazialità, attributo istintivo del linguaggio per la neuroscienza, proviene dalla prospettiva in quanto composizione nello spazio e questa (come dice Gombrich) rimanda alla composizione delle cose. Magritte, con Carte blanche testimonia come spazio e prospettiva siano derivabili per via compositiva.
     Composizione, dunque, ancora una volta oltre la filogenesi, tutta nel potere del pensiero laterale: verticalità, simmetrie immediate fino a Luca Signorelli e al Bramantino, sezione aurea, armatura del rettangolo, simmetrie avvolgenti (da El Greco a Rubens), i contrapposti di Rubens e Delacroix ed altre, tante soluzioni ancora, fino alle ‘citazioni’ della cinematografia.
     Così la matericità (che peraltro non rientra ancora nelle ricerche di Zeki): dal Ponte di Langlois alla Notte stellata di Van Gogh, dal dripping alla action painting di Pollock e De Kooning, alla matericità  biologica (con i suoi metabolismi e le metamorfòsi) di Calabria.



[1] Linguaggio come sistema simbolico, secondo la dizione di Nelson Goodman, Languages of Art, The Bobbs-Merrill, Inc., 1968, I linguaggi dell’arte, Il Saggiatore, 19912.
[2] Steven Pinker, L’istinto del linguaggio. Come la mente crea il linguaggio, Oscar Mondadori, Milano 1998, pp. 7-12. (D’ora in poi, SP, seguito dal numero delle pagine).
[3] Semir Zeki, A Vision of the Brain, Blackwell Scientific Publications, Oxford 1993; La visione dall’interno. Arte e cervello, Universale Bollati Boringhieri, Torino 2007.
[4] SP 353.
[5] SP 403-404.
[6] SP 420.
[7] SP 309.
[8] SP 314.
[9] SP 321-323.
[10] Quanto alla localizzazione di tali capacità, per quel che riguarda la conformazione mentale del linguaggio figurativo, si sa che l’emisfero destro è specializzato nelle capacità spazio-visive e può servirsi dell’occhio e della mano, sebbene sia sempre controllato dall’emisfero sinistro, che gestisce anche regole astratte e strutture:  SP 294.
     L’area di Wernicke e le circonvoluzioni angolare e sovramarginale (all’incrocio di tre lobi del cervello) «sono l’ideale per integrare flussi di informazione sulle forme visive, i suoni e le sensazioni corporee […] e le relazioni spaziali (dal lobo parietale). Sarebbe un luogo giusto per immagazzinare legami tra suono delle parole e le sembianze e la geometria di ciò a cui si riferiscono»: SP 304. E si stanno ancora cercando di delineare altre nuove regioni, «con la propria funzione o stile di elaborazione, come le aree della visione specializzate nella forma degli oggetti, nella disposizione spaziale, nel colore, nella visione tridimensionale, nei movimenti […]»: SP 307.
[11] SP 232.
[12] SP 233.
[13] SP 269-270.
[14] Cfr. anche SP 270.
[15] SP 280.
[16] SP 64; anche: SP e altri (1985), Visual Cognition, MIT © 1984; Shepard RN, Cooper LA e altri (1986), Mental Images and Their Transformations, MIT © 1984.
[17] SP 64.
[18] SP 69.
[19] SP 115.
[20] Anche qui, per quel che riguarda il linguaggio verbale, SP 143.
[21] Sulla spazialità assoluta (nella sua intrinsecità statica) e relativa (nel suo dinamismo), cfr., p. es., Ch. Bouleau, La geometria segreta dei pittori, Electa, Milano 1996; p. es.:, la figura di San Gerolamo, nell’omonima opera di Antonello da Messina, Londra, National Gallery e, rispettivamente, l’immagine dell’opera S. Gerolamo o, per essere più chiari, l’immagine della Lotta tra il Giaurro e il Pascià (1835), in Delacroix, Coll. Gerard. Sulla spazialità e le sue altre forme, fisica e ottica, topologica e retinica, verticale, ecc., si veda oltre.
[22] Struttura semantica è quella che si riferisce ‘verticalmente’ alla realtà esterna al linguaggio, costituendo un rapporto di significazione sincronico, riferito all’oggetto del linguaggio significato.
[23] Struttura sintattica è quella che si riferisce ‘orizzontalmente’ alla realtà interna del linguaggio, costituendo un rapporto di significazione diacronico, riferito al soggetto linguistico significato.
[24] SP 228.
[25] SP 229. «L’impressione generale è che la grammatica universale sia come il progetto corporeo archetipico che si riscontra in un grande numero di animali di uno stesso phylum» [architettura corporea comune a tutti gli anfibi, ecc.].  «Una volta programmato, un parametro può produrre cambiamenti enormi nell’aspetto esterno di una lingua»: ivi 229-230.
[26] Cfr. R.L. Gregory, Enciclopedia Oxford della mente, a cura di B. Saraceno e E. Sternai, Oxford U.P. 1987, Sansoni, Firenze 1991, s.v. In breve, viene chiamato “pensiero laterale” (che niente ha a che fare con la ‘lateralizzazione’ cerebrale) l’insieme degli atti ‘creativi’ della mente, consistenti in operazioni di selezione tra gli infiniti schemi possibili della percezione e di mutamento e trasformazione di alcuni fra essi mediante “abitudini intenzionali” di provocazione, che costituiscono veri e propri mezzi di sfida e di rottura degli schemi per così dire familiari, che definiscono la ‘norma’. La lateralità rispetto alla norma è dunque la sostanza dell’atto creativo, che si traduce in atti pragmatici assolutamente non conformi alle attese, illogici in sé, anche se, ma solo ad una riflessione a posteriori, tali da apparire poi del tutto logici e, nella prassi successiva, del tutto conformi.
[27] Quello che Zeki chiama “acquisizione di conoscenza del mondo” (tramite generalizzazione e ottenimento della ‘costanza’, della ‘durevolezza’, dell’‘essenzialità’, della ‘stabilità’) è il conferimento di una “classe di appartenenza”, di un “attributo essenziale” (senza di cui non è possibile cogliere le proprietà del mondo esterno); ma è anche la base, la condizione per evidenziare ciò che uno stato creativo intende e vorrebbe conferire alla visione e all’espressione: cioè fissarla (conservarla e non perderla più). Nella prima accezione, è il sostrato categoriale del linguaggio in generale, che può peraltro intendere ed esplicitare anche il ‘transeunte’, la costanza del transeunte, la costanza ‘situazionale’ (come la definisce Zeki, a proposito di Vermeer, distinguendola da una costanza ‘implicita’, che riferisce invece a Michelangelo). Ma questa, direi, non è più costanza di una classe di appartenenza, ma proprio quella costanza della forma, sotto cui si possono unire insieme tutte le opere di Vermeer: insomma la sua ‘poetica’, il suo ‘stile’, ciò che evidenzia un senso di ‘mistero’ per quelle forme di Vermeer, insomma il “mistero della sua forma”, che travalica i singoli contenuti e le determinate situazioni. Non si tratta del non detto di ogni situazione, non è l’ambiguità e il mistero dei contenuti che possa far sentire e richiamare quel mistero della forma. Allora si comprende che quella costanza situazionale, che Zeki attribuisce a Vermeer, non differisce affatto dalla stessa costanza implicita, che attribuisce a Michelangelo: anche qui l’ambiguità e il mistero non riguardano i contenuti, ma proprio la forma: in questione non è il mistero di ciò che avviene o che potrebbe avvenire; la questione non sta in qualcosa che viene ‘lasciato’ all’interpretazione del contenuto, ma riposa in ciò che è cercato e posto a tema dall’artista stesso e creativamente ‘colto’ nella realtà stessa: qualcosa che resta eternamente sconosciuto (non nel contenuto dell’opera, bensì già immanente alla realtà: è ciò che crea poi lo shock dell’osservatore e gli apre sollecitazioni nella memoria di eventi passati e della sua cultura).
[28] Sono, del cervello, le aree V1 e V2 (posta attorno alla V1).
[29] Se vedere e capire sono aspetti connessi, non è esclusa la differenza: si può infatti vedere qualcosa senza capire di che si tratta. Vi sono lesioni che comportano acromatopsia (soprattutto nell’area V4), acinetopsia (soprattutto nell’area V5), prosopagnosia (area del giro fusiforme), quindi incapacità di vedere colori, movimento, fisionomie, sebbene con capacità di vedere e comprendere qualcosa degli attributi che pur non possono essere identificati. Non riconoscere, ma sapere quale è lo stato d’animo (vultanopsia), con una lesione del giro fusiforme estesa anteriormente, porta anche all’incapacità di riconoscere l’espressione del volto e coinvolta è l’amigdala, responsabile nelle situazioni affettive (specie di paura).
[30] I segnali, inviati all’area V1, sono ricevuti da cellule raggruppate, anatomicamente distinte, con i blobs che reagiscono alle diverse lunghezze d’onda della luce. Partono da V1 (zona di smistamento) o direttamente o indirettamente all’area V2 (impropriamente chiamata corteccia dell’associazione visiva, e posta attorno alla V1) e alle altre aree visive della corteccia (ognuna diversamente specializzata).
     Una cellula può essere specializzata selettivamente al rosso, ma non agli altri colori, compreso il bianco, e non reagisce neanche alla forma: insomma la selettività per un attributo si associa alla indifferenza per gli altri. Questo è il “sistema di specializzazione funzionale”. Il tipo dell’informazione da cogliere o trascurare, per un attributo, è diverso dagli altri tipi per gli altri attributi: anatomia e fisiologia sono già commisurati per rispondere ai bisogni.
[31] Il cervello non può seguire ciò che accade in tempo reale per intervalli brevissimi di tempo: il cervello collega (o meno) i risultati dei ‘suoi’ sistemi di elaborazione (quindi, con errori sul tempo reale). Questo risultato conferma il fatto che i sistemi di elaborazione devono essere sistemi percettivi e che, per una serie di sistemi di percezione ed elaborazione in parallelo, i risultati devono essere ‘percetti’ differenti.
     Ma la percezione è un evento conscio: se percepiamo in istanti separati, ci sono micro-coscienze separate, non sincronizzate fra loro. Allora ciò che deve essere o meno unificato sono le micro-coscienze generate dalle attività dei sistemi percettivi (non le diverse attività dei diversi sistemi percettivi).
     Data l’autonomia, un sistema può risultare compromesso, senza che ci siano effetti sul resto dei sistemi. Questa autonomia dei diversi sistemi porta a concludere per una loro “specializzazione funzionale (qui sintattica)”.
[32] Acromatopsia, acinetopsia, prosopagnosia, che sono incapacità di vedere e di comprendere rispettivamente colore, movimento, fisionomie, conservano però una residua capacità di vedere e comprendere qualcosa degli attributi che non possono essere identificati. Ciò si spiega con le molte ‘stazioni’ dei sistemi di specializzazione (p. es., per il colore, le aree V1, V2, V4 e altre ancora; per il movimento, le aree V1, V2, V5 e altre). Insomma, una lesione, che lasci intatti livelli antecedenti del percorso visivo, consente ancora di vedere e distinguere in certa misura. L’area V1, se lesa, ha un danno più grave perché alimenta le altre aree
[33] L’agnosia visiva per gli oggetti è il fallimento selettivo della capacità di riconoscere oggetti fermi, ma non in moto (o viceversa). Quando c’è discromatopsia o acromatopsia allora è il cervello che ha perso la capacità del confronto tra luce di una superficie e luce delle superfici circostanti. Lesioni in V1 corroborano l’ipotesi di una pluralità di sistemi visivi autonomi per i vari attributi della visione (i ciechi per un danno a V1, tuttavia vedono e capiscono comunque alcuni attributi,  p. es.: le forme in movimento: esiste, infatti, una via diretta dalla retina all’area V5 del movimento, senza passare per l’area V1.
[34] Con una lesione nell’area V4 anche la registrazione mnemonica viene cancellata. Quindi non esiste, come s’è già detto, una rappresentazione ideale (in senso platonico), separata e per tutti gli attributi visivi, basata su un’area distinta, non legata a particolari attributi.
     Se la lesione esiste anteriormente al “giro fusiforme” del cervello, in modo da risparmiare V4, si ha prosopagnosia  (non riconoscimento dei volti, incapacità di adattare la percezione del volto al ‘ricordo’ specifico, immagazzinato nel cervello), ma non acromatopsia (non riconoscimento dei colori): non c’è insensibilità generalizzata (data la “specializzazione funzionale”), a meno che la lesione non sia nell’area V1 (con cecità totale).
[35] Tuttavia (e qui si nota anche la diversità di procedura nella costruzione “istintiva biologica” del linguaggio visivo, da quella operata nell’esplicito linguaggio pittorico), come s’è già detto, una cosa è la realtà fenomenica, dove la luce è determinante per il colore; altra cosa la pittura, dove la luce è indirettamente espressa dal colore.
[36] Istruttivo è il caso di Victor (il ragazzo selvaggio dell’Aveyron, trovato nella foresta del Tarn in Francia), che non riuscì mai a apprendere appieno il linguaggio.
[37] L’ipotesi è che le reazioni elettriche delle cellule non siano distribuite uniformemente, ma raggruppate; e inoltre che la sincronizzazione delle oscillazioni di cellule stia a segnalare la loro reazione allo stesso oggetto.
[38] SP, cit., 7-12.
[39] Nel linguaggio verbale, al concetto operante nella ‘mente’ corrisponde una parola, che ha un suono acustico, a cui presiede l’udito, e un significato: una parola può avere molti significati, che sono omonimi fra loro, e ad un significato possono corrispondere anche più parole, che sono allora sinonime tra loro. Sempre nel linguaggio verbale il suono è costituito di unità di forma acustica, i fonemi, che si costituiscono in unità di forma del linguaggio verbale, cioè morfemi, che, a loro volta si costituiscono in unità lessicali, cioè parole, che possono costituire - con i loro affissi (prefissi e suffissi) – composizioni (nominali), cioè i sintagmi.
     E. Panofsky (Il significato nelle arti visive, Einaudi, Torino 1962, pp. 31-44; inoltre Studi di iconologia. I temi umanistici nell’arte del rinascimento, Einaudi, Torino 1975, pp. 16-17) precisa che si devono distinguere tre gradi di ‘significato’; l’oggetto dell’interpretazione significante può essere: α) il semplice soggetto primario o naturale, il cui atto interpretativo è la semplice ‘descrizione preiconografica (e quanto occorre per l’interpretazione è la sola esperienza pratica, per la quale basta lo studio delle ‘forme’ in cui sono espressi oggetti ed eventi) o β) il soggetto convenzionale, secondario, interpretato dall’ ‘analisi iconografica (e quanto occorre è una conoscenza delle fonti, per la quale occorre uno studio dei concetti e dei temi espressi mediante oggetti ed eventi) o ancora γ) il significato intrinseco soggetto ad ‘interpretazione iconologica (e quanto occorre è, allora, lo studio del modo in cui simboli e sintomi culturali sono espressi mediante temi e concetti specifici); insomma, una molteplicità possibile di atti interpretativi per un singolo oggetto, sia nell’intenzionalità dell’artista (insita nell’opera), sia nell’interpretazione del critico; e si tenga presente il diverso livello di tali gradi: dalla descrizione, all’analisi iconografica (anche implicita), alla (parimenti implicita o meno) interpretazione iconologica.
[40] Ma cfr. Hoffman DD, Richards WA, Parts of recognition, in Pinker S, Visual Cognition, cit., pp.65-96.
[41] Questa quadripartizione quasi convenzionale riproduce quella verbale, in fonemi, monemi, parole e sintagmi, che però è tutt’altro che ‘quasi’ convenzionale.
[42] Un esempio di prospettiva non geometrica è dato in Veronese, Nozze di Cana (Parigi, Louvre), con una rosa di fuochi prospettici. Quanto alla differenza tra fuoco ottico-prospettico e struttura compositiva, cfr. Ch. Bouleau, op. cit., p. 239, con l’esempio di Géricault, La zattera della Medusa (Parigi, Louvre), dove la struttura compositiva data dall’armatura del rettangolo è definita dalla divisione in tre parti del lato superiore, mentre il fuoco è nell’angolo superiore destro.
[43] E. H. Gombrich, Art and Illusion. A Study in the Psychology of Pictorial Representation, cfr. Arte e illusione, Einaudi, Torino 1965,  48.
[44] Cfr. Leonardo da Vinci, Libro di pittura, I, Parte secunda, De’ precetti del pittore [ai frammenti [131]: Delle prime otto parti in che si divide la pittura: «Tenebre, luce, corpo, figura, <colore>, sito, remozzione e propinquità, Possene aggiongere a queste due altre, cioè moto e quiete, perché tal cose è necessario figurare ne’ moti delle cose che si fingono nella pittura» e [132]: Come la pittura si divide in cinque parti: «Le parti della pittura sono cinque, cioè:: superfizie, figura, colore, ombra e lume, propinquità e remozzione, o voi dire accrescimento e diminuzione, ch’è le due prospettive, como nella diminuzione della quantità e la diminuzione delle notizie delle cose vedute in longhe distanze, e quella de’ colori, e qual colore è quello che prima diminuisce in pari distanzie, e quel che più si mantiene»; ma ancora [136]: Delle parti della pittura: «La prima parte della pittura è che li corpi con quella figurati si dimostrino rilevati e che li campi d’essi circondatori con le lor distanze si dimostrino entrare dentro alle pariete, dove tal pittura è generare, mediante le tre prospettive, cioè diminuzion delle figure de’ corpi, diminuzion delle magnitudini loro e diminuzion de’ loro colori. […]», Codice Urbinate lat. 1270 nella Biblioteca Apostolica Vaticana, a cura di Carlo Perdetti, Trascrizione critica di Carlo Vecce, Giunti ed., Firenze 1995, p. 202]; cfr. anche Trattato della pittura (Roma 1984, n. 479).
[45] Cfr. in E.H. Gombrich, op. cit., Leonardo, Cavallo che s’impenna, p. 213.
[46] Un esempio di spazialità fisica aerea in Pieter Bruegel il Vecchio, Giochi di fanciulli, Vienna, Kunsthistorisches Museum, Gemäldegalerie.
[47] Ottica è la pittura di Antonello da Messina o quella di Piero della Francesca. Nell’ambito di queste modalità fisiche e ottiche dello spazio si può collocare tanto la frontalità rinascimentale quanto il tutto-tondo barocco.
[48] Prospettiva, secondo Leonardo caratterizzata dalla ‘diminuzione’ del colore, delle notizie e della quantità.
[49] Per esempio in Michelangelo, nel Parmigianino , in El Greco o nella Donna in piedi al clavicembalo, di Vermeer (Londra, National Gallery).
[50] E. H. Gombrich, op. cit., 289.
[51] E. H. Gombrich, op. cit.,  360.
[52] E. H. Gombrich, op. cit., 376.
[53] E. H. Gombrich, op. cit., 362.
[54] E. H. Gombrich, op. cit., 320
[55] E. H. Gombrich, op. cit., 326
[56] A cui allude E. H. Gombrich, op. cit.,  44
[57] In proposito, E. H. Gombrich, op. cit., 54 e 59
[58] E. H. Gombrich, op. cit., 377
[59] E. H. Gombrich, op. cit., 378
[60] In particolare, cfr. E.H. Gombrich, op. cit.
[61] Sulla rappresentazione pittorica, la conferma che sia solo il cervello a poter rappresentare l’oggetto è offerta, secondo S. Zeki, dall’osservazione dell’opera di Magritte, Carte blanche (la donna a cavallo fra i tronchi degli alberi), che è un’immagine che non può rappresentare un oggetto, ma può farlo solo il cervello, che lo ha osservato da molte angolazioni differenti. Ciò che si vede, opposto a ciò che si percepisce, è “una sfida al senso comune”.
     Sulla ricerca dell’essenziale nel cubismo. Dopo la ‘rottura’ della prospettiva di Paolo Uccello e di Piero della Francesca, si radicalizza il conflitto tra realtà e percezione (visto sopra) e sull’unilateralità dell’immaginazione (visto sopra).
     Così nel cubismo ‘primitivo’, la possibilità di cogliere l’oggetto in tutte le sue parti sottolinea che, allo scopo, la sua ricostruzione richiede l’eliminazione della luce, che indicherebbe un istante particolare del tempo dell’esposizione, e della prospettiva, che indicherebbe una particolare direzione nello spazio. Solo il cervello può conservare l’identità in una molteplicità di tempo e di spazio. Tutto mostra il fallimento nella possibilità di  imitare quanto fa il cervello.
[62] I cubisti seguirono la via opposta: rigettarono in blocco la tradizione della fedeltà al vero e tentarono di rifarsi all’“oggetto reale” che, per raggiungerlo, schiacciarono sul piano. Cfr. E. H. Gombrich, op. cit., 378-379.
[63] Di Signorelli vale assolutamente ricordare il bellissimo Pan e i pastori [L’educazione di Pan] (opera purtroppo andata distrutta nella Berlino dell’ultimo conflitto mondiale) con la sua simmetria di figure chiare (avanti) e scure (dietro), di alternanze di giovani e vecchi, con la figura centrale di Pan, fra le cui corna si colloca la luna, e la figura distesa, che unisce tutta la composizione. E del Bramantino, Filemone e Bauci (Colonia) con la sua ripetizione di triangoli, nella forma dell’albero, del muro e della tovaglia annodata. 
[64] Cfr. Ch. Bouleau, op. cit., p 243.
[65] Cfr. Ch. Bouleau, op. cit.
[66] Rubens, Caccia al leone, München, Alte Pinakothek; Delacroix, Lotta tra il Giaurro e il Pascià, 1827 e 1835, Coll. Gerard:  cfr. Ch. Bouleau,.op. cit.
[67] Ad esempio, Giacomo Balla, Dinamismo di un cane al guinzaglio, 1912.
[68] Cfr. le differenze fra le marine di un Turner, (Arrivo a Venezia) e di un Vermeer (Veduta di Delft, 1660-61, L’Aia)  o di Van Gogh con se stesso (Il ponte di Langlois, marzo 1888, Amsterdam, Rijksmuseum) e Notte stellata (New York, The Museum of Modern Art).
[69] J. Pollock e W. De Kooning, soprattutto.
[70] Cfr. Nelson Goodman, op. cit., pp. 48 e 52, 80-88.
[71] E. H. Gombrich, op. cit., 361
[72] E. H. Gombrich, op. cit., 362
[73] Nei modi della retorica antica, l’impressione (la comunicazione dei concetti figurati – termine, le cui regole furono riscoperte nel ‘500 – nella sua derivazione dalla sensazione soggettiva) era uno dei modi della elocutio; ma – per la sua parte di derivazione dalla percezione oggettiva –  era anche uno dei modi della imitatio (in sostanza la classica mimesis, condannata da Platone nel X° libro della Repubblica, in quanto imitazione di una realtà, che è già copia del mondo delle idee) ed anche della stessa inventio (intesa nel ‘500 come creazione delle forme naturali: un creare, che farà dire, polemicamente, a Picasso: io non cerco, trovo). Se vi aggiungiamo la actio (l’azione come contenuto di un racconto), abbiamo l’elenco di quei modi. Non resterebbe che la dispositio, cioè quella funzione necessaria alla costruzione delle immagini, selezionandone le forme: in sostanza coincidente con i modi della composizione, quale la si può desumere da Leonardo.
[74] Giovanni Paolo Lomazzo (morto proprio nel 1600), ma soprattutto Federico Zuccari concepiscono un’analisi non più basata su criteri scientifici, come nel ‘400, ma su criteri appunto di ‘idealità’, che sfociano nell’ideale di bellezza (Raffaello o Annibale Carracci): ideale, che Giovan Pietro Bellori vuole incarnato in Nicolas Poussin. Sulla rivoluzione antiaccademica quanto al ruolo autonomo del colore rispetto al disegno s’è già detto.
[75] La storia dell’arte diventa studio delle opere, attraverso le opere stesse e non attraverso la ‘vita’ dell’artista (Mengs e Winckelmann) e nasce il critico specializzato (mediatore tra artista e pubblico), portatore di un giudizio di valore sull’opera, e un movimento di critica sostenuto da grandi letterati (Baudelaire, Apollinaire, Breton) e da profondi conoscitori, fra cui Rumohr, Passavant, Cavalcaselle, Moretti, Adolfo Venturi e poi Berenson, Longhi e Zeri.
     Il campo della percezione diretta e mnestica sarà sottoposto (alla metà del XX° secolo) alla lente della psicologia della percezione visiva (Gombrich), mentre quello dell’impressione in generale (a partire dalla fine dell’‘800) darà luogo a una teoria della pura visibilità’ come conoscenza artistica del reale (Fiedler, Von Marées, Hildebrand) e alla sua applicazione storiografica (Wölflin), con la formulazione di una grammatica di categorie visive e di costanti linguistiche formali, quali chiavi universali e senza tempo dell’interpretazione dello sviluppo artistico. Questo orizzonte teorico si allargherà fino all’idea di una intenzionalità espressiva, valida per le varie epoche (a cui si riferisce il concetto di ‘Kunstwollen’ sostenuto da Riegl), e poi all’esplosione degli studi di iconografia e iconologia, a partire dall’idea di una storia dell’arte come storia della cultura (Burckhardt) o come storia dello spirito (Dvořak), e poi all’opera metodologica di Aby Warburg, fondatore degli studi di iconologia, con l’enorme contributo di Panofsky sul ‘significato’ nel contesto storico-sociale (i suoi studi di iconografia ed iconologia).
[76] Mutamenti di funzione (sociale, ecc.) danno luogo a mutamenti di forma. Cit. in E. H. Gombrich, op. cit., 179.

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