LA NOVITÀ DELLA VECCHIA
PITTURA
Di Ennio Calabria
Di Ennio Calabria
Quando apparve la fotografia, la pittura temette di
morire.
La foto le aveva tolto all’improvviso la sua
funzione sociale più riconosciuta, quella di consegnare al tempo futuro la
documentazione visiva del presente.
Per salvarsi la pittura doveva cercare nella propria
genericità le ragioni del proprio diritto ad esistere.
“L’informale” è forse il livello espressivo più alto
di questo contrapporsi identitario alla foto e in cui la pittura sembra la
massima ansiosa onnipotenza del suo ripiegarsi su se stessa.
Era come se la pittura avesse detto alla foto: “Tu
sei abilissima a documentare in tempo reale le apparenze delle cose, ma le
congeli in fotogrammi di morte, perché le separi dal fluire del tempo. Io
invece sono un organismo vivente.
Vedi, se mi apro il ventre, puoi vedere il sangue,
gli organi e puoi accorgerti che il mio tessuto organico è una dinamica matrice
che contiene un numero di contraddizioni molto più alto di quello che i tuoi
pixel sopportano.
Al contrario della tua funebre sospensione del
tempo, quando tornerò a documentare la realtà le mie immagini saranno un
fotogramma che conserverà l’appartenenza alla continuità del tempo e dei
dinamismi della vita.”
Tuttavia poi, per ragioni molto complesse, i tempi
di questo ripiegarsi della pittura su se stessa si sono allungati troppo.
Quella prima sofferta, necessaria reazione alla
diffusione della foto si è patologizzata in un comportamento narcisistico.
L’esposizione delle proprie viscere è sempre più
percepito come atto valido in sé, esaustivo e sempre più immemore dell’antitesi
che l’aveva determinato.
Così la pittura, smarrito il suo riferimento di
contrasto, va perdendo la consapevolezza del rapporto di causa-effetto tra il
proprio processo e quello che dà luogo alle presenti tecnologie della
visualizzazione, nella loro relazione con l’attuale contesto sociale.
Vanificata la sua tensione a causa della rimozione
razionale ed emotiva della sua antitesi, smarrito l’orientamento per la perdita
della propria relazione con il contesto sociale presente, la pittura, nella sua
dimensione quantitativa più ampia, collassa in uno stanco citazionismo del
passato remoto, o in vaghe e spesso velleitarie rivisitazioni al presente di
esperienze dell’avanguardia storica o, infine, in una confusa accademia di sé.
Parlo naturalmente della pittura e dei suoi
tentativi di rifondarsi in sé. Senza contaminarsi con altre discipline. Non
credo, per esempio, alle manipolazioni delle foto al computer, che snaturano la
foto e vanificano la pittura.
In senso più generale sono infatti convinto che si
possa ritenere ormai esaurita l’esperienza interdisciplinare che hanno vissuto
le discipline artistiche all’inizio del novecento, per cui in nome di una
presunta “unità della poesia”, ciascuna disciplina cedeva parti di sé alle
altre.
Quell’esperienza ha prodotto volta per volta
variazioni nel contesto, ma raramente ha avuto la forza di proiettarsene oltre.
Oggi poi, se si vuole immaginare qualcosa di
veramente innovativo, occorre che una disciplina si radicalizzi in sé e che
casomai vada ad esplorare di nuovo i propri “sotterranei”, in cui il suo sapere
si conserva nella sua forma incipiente e magmatica. L’esatto contrario di
quella ormai lontana esperienza interdisciplinare che subordinava la potenzialità
conoscitiva specifica della disciplina, alla dogmatica presunzione
dell’esistenza di un’unità della poesia.
Oggi che le esperienze coesistono ciascuna nella
propria autoreferenzialità, ci si accorge di quanto ormai sia inattuale quella
posizione.
Oggi è come se ci trovassimo di fronte ad attori che
recitano ciascuno il proprio copione autoreferenziale, e se alla fine si
produrrà un copione generale questo “accadrà” per la non verbalizzabile
“induzione” che ogni attore, per la sua stessa presenza, produrrà negli altri.
In questo quadro di riferimento la pittura deve
assumere consapevolezza dell’ attualità che proprio la sua stessa natura
disciplinare le fornisce.
Il primo fatto, e forse il più importante, è quello
di consentire al pittore di entrare ogni volta in rapporto con le fasi
magmatiche delle future potenzialità, con una dimensione cioè che contiene già
i presupposti di ciò che poi diverrà “codice”.
Per questo nella pittura i pensieri, i contenuti e i
concetti nascono lì, in quel momento e mediante i sussulti fisiologici della
pittura nel suo farsi.
Una volta, tanto tempo fa, stavo dipingendo un uomo
visto dall’alto che produceva una grandissima ombra rossa che io realizzavo
faticosamente con piccole pennellate.
Titina Maselli, pittrice, mi disse: “Ma perché perdi
tanto tempo? Tu sei un pittore visionario, e allora ritaglia una grande
plastica rossa e ci fai l’ombra”. Ecco, qui sta la questione.
Se avessi fatto così, come la mia amica mi
consigliava, avrei “illustrato” un’idea.
Invece, dipingendola, quell’idea avrebbe avuto la
sola funzione di stimolare dal mio interno l’emersione di ciò che non sapevo, e
di farmene carico.
Voglio dire che la pittura ha la possibilità di
sollecitare la coscienza ad assumersi la responsabilità persino dell’attività
di quelle parti della psiche considerate dalla storiografia non recensibili,
perché ritenute laterali, esterne ai confini del territorio di cui la coscienza
si assume la diretta responsabilità.
In tal senso la pittura oggi si propone come
disciplina di fondazione di una diversa forma della soggettività, capace di
muovere “spaesata dal già pensato” e di farsi carico di ciò che invece una
coscienza preorientata non può controllare.
Del resto gli artisti del novecento avevano già
presagito la crisi della forma storica del “soggetto” occidentale, di un
soggetto cioè che muove in continuità coerente con il “già pensato” che,
comunque, resta il suo orientamento; soggetto che pretende di controllare tutto
e che quando si imbatte nel caso, pretende di vessarne la libertà riportandolo
entro le proprie intenzioni, oppure non se ne assume la responsabilità.
Molti artisti del novecento hanno cercato di
prendere le distanze da questo ingombrante soggetto in diversi modi.
Alcuni di essi hanno ritenuto più credibile
investire più che sul proprio gesto, sull’ironia di esso.
In quei casi l’ironia su di sé fu il vero
passe-partout per il consenso sociale, e ciò voleva dire che già iniziava a
determinarsi la percezione della crisi di un ordine sociale, e che iniziava a
manifestarsi una certa disponibilità all’incontro con l’imprevedibile accadere
delle cose, consapevoli di essere meno protetti da schemi sicuri.
Altri artisti invece si potrebbe dire che abbiano
confinato l’azione di una soggettività programmante.
Essi hanno usato la loro immediata consapevolezza
sino ad ipotecare un escamotage che li liberasse dall’ossessione di dover
controllare, sino a programmare, un gesto oltre il quale l’artista non si
assume più la diretta responsabilità di ciò che accadrà.
Duchamp è come se si fosse detto: “Come ultimo gesto
consapevole, io affermo che un oggetto decontestualizzato dal proprio contesto
funzionale ed esposto in uno spazio espositivo, sarà un nuovo oggetto e
determinerà in chi lo vedrà processi associativi nuovi e imprevedibili”.
Ciò significa però che Duchamp, come soggetto
consapevole, si assume una diretta responsabilità sino alla messa in atto della
sua intuizione, ma dal momento in cui quell’oggetto decontestualizzato verrà
esposto, ciò che accadrà, accadrà fuori e oltre la responsabilità del soggetto
Duchamp.
Pollock fa la stessa cosa: fissa quel gesto che apre
al libero e casuale agire delle colature della materia, come limite della sua
diretta responsabilità di soggetto.
Ma nel caso di Pollock il discorso è più complesso perché
quel gesto non segna il limite tra responsabilità e casualità e basta, ma segna
il limite tra una forma della sua soggettività e la ricerca di un’altra nuova
forma del suo modo di porsi come soggetto.
Infatti Pollock sperimenta la possibilità di farsi
carico della casualità e della sua imprevedibile produttività partecipando, in
una alleanza di destini, al suo libero determinarsi.
Mi piacerebbe proseguire ma per ragioni di spazio
devo fermare qui la mia riflessione. Volevo solo esprimere la mia convinzione
sull’attualità della pittura e sulla sua necessità.
Questo naturalmente se la pittura assume coscienza
di sé e coscienza di essere il potenziale soggetto capace di riportare, come
oggetto comunicabile nella comunicazione sociale, i “sintomi” che le dimensioni
complesse della personalità inviano da quell’esilio in cui la dimensione
pragmatica della società le ha confinate.
Questo può fare la pittura se si radicalizza in sé,
per poi rivolgersi di nuovo al suo esterno, verso la società.
Al contrario, vediamo come l’uscita dalla sua natura
disciplinare la indebolisca.
Per esempio vediamo che se un pittore abdica al
proprio processo fondamentale sostituendolo con quello del computer,
atomicamente si produce uno spostamento verso l’uso di codici e di pensieri
conclusi precedentemente.
In questo caso l’accezione della massima creatività
non è “il generare” ma “la sorpresa” che deriva dal gioco intertestuale che
pone a confronto testi già conclusi.
Oppure è “l’emozione” che deriva dall’estetizzazione
e dall’emotivizzazione del già pensato.
Concludendo, vivo la pittura come espressione del
travaglio soggettivo di cui essa è portatrice come “verità testimoniale”, in
antitesi alla falsa coscienza che ormai ha sostituito l’autorità del piano
oggettivo degli scambi.
C’è anche da dire, infine, che è riconosciuta da
molti la debolezza testimoniale delle immagini mediali.
Per questo la pittura può e deve contrapporsi
all’egemonia della documentazione di derivazione fotografica, e deve dimostrare
di essere portatrice di verità e comunque di un numero e di una qualità di
informazioni diverse ma altrettanto attuali di quelle di cui la foto è capace.
Io oggi lavoro affinché la pittura riacquisisca
funzione sociale, fornendo spessore alla comunicazione oltre la pelle della superficie.
Lavoro affinchè la pittura sia uno strumento che
possa consentire alla complessità esiliata di fare cortocircuito con le
dimensioni della superficie su cui vive l’odierna società, e conseguentemente
produrre esperienza.
Ennio
Calabria