Tutta la
poesia del novecento muove alla ricerca di un linguaggio nuovo, quasi volesse
imprimere segni, orme, e suoni di stampo diverso e diversificato.
Così
tutte le avanguardie, le postavanguardie ed il novismo trionfante hanno cercato,
e tuttora cercano, l’introvabile linguaggio poetico per una poesia prosaica,
poco attenta ai contenuti, dove la forma diventa sostanza e dove il suono privo
di armonia a volte stride.
I valori
sociali, un tempo condivisi, hanno perso forza attrattiva, ed ora le verità e le
futili certezze, sembrano disseminate su terreni scoscesi ed impervi.
Eppure
ancora oggi si ripropone, e con maggiore insistenza, la ricerca affannosa dei
linguaggi poetici.
Io credo
che il linguaggio non sia il punto di arrivo, o per meglio dire il traguardo
ambizioso di chi volutamente vuole fare poesia.
Esso è l’espressione
della società che cammina ed evolve inconsapevolmente, ed è certamente uno
strumento della più ricca professionalità del poeta, indispensabile per il
facimento del verso e per la sua musicalità, ma in definitiva, rappresenta soltanto l’involucro del sogno o
della sensazione che è propria della poesia.
Oggi,
dicevamo che non vi sono più ideali o valori condivisi dalla generalità dei
fruitori dell’arte; c’è soltanto l’autoreferenza degli scrittori che non
accettando il confronto, contribuisce ad alimentare uno spaesamento totale, che
non arricchisce, ma isola.
Una
volta si sosteneva, che il poeta era tale se possedeva la vivacità e la
ricchezza di un mondo poetico. Ed il mondo poetico era la luce, il sapore, il
profumo di un pensiero, che il poeta riusciva ad esprimere attraverso il suo
linguaggio. I poeti un tempo erano considerati un dono degli dei; essi erano
uomini saggi, ricercatori del mistero e attenti conoscitori della vita, e il loro linguaggio per questo motivo doveva
essere compreso da tutti. Oggi giorno i poeti sono tantissimi e il loro
linguaggio, spesso prosaico o
incomprensibile, è privo dei contenuti propri di una società che evolve
rapidamente a causa della continua velocità degli scambi.
Nel
nostro tempo non vedo poeti impegnati a valorizzare o a promuovere nuovi spazi
culturali o le così dette scuole di orientamento, dove i giovani emergenti,
possano trovare accesso per un costruttivo confronto generazionale .
Questa
necessità era molto sentita nei decenni postbellici del secolo scorso, basti
pensare ai caffè letterari, o alle sedi delle tante riviste nate non a caso su
tutto il territorio nazionale, dove i poeti e gli artisti si accapigliavano per
l’appartenenza a un movimento, o per una
idea non condivisa. Questi luoghi di dialogo e di scontro oggi sono rarissimi, e
questo la dice lunga. Non credo che abbia ragione chi sostiene, che la voglia
di partecipare a tavole rotonde, o a
frequentare ambienti letterari sia venuta meno anche a causa delle maggiori
difficoltà, che s’incontrano per arrivare nei centri storici delle grandi città. Credo
piuttosto che l’interesse sia caduto, perché nei poeti scarseggiano le idee.
Oggi, più di ieri, si affronterebbero sacrifici maggiori, per poter esprimere o
ascoltare le proprie o le altrui sensazioni.
Il provincialismo letterario ha le sue origini
nell’isolamento, nel non dialogo, nel promuovere non più accademie, ma incontri
da parte delle varie e tante
associazioni letterarie, il cui unico interesse
è abbeverarsi alla fonte inesauribile delle istituzioni. Da qui i tanti
premi di poesia, necessari per apparire o per spillare quattrini a quei poveri
poetastri, che si ritengono poeti di rango. La verità è quella che è emersa sopra: l’assoluta mancanza di
pensiero, la superficialità, la dissolvenza poetica. Detto questo posso però sostenere di non essere pessimista, e di credere ancora nell’uomo/poeta, nell’artista, nell’uomo
di cultura, anche se in questo secolo vince il consumismo a discapito dei contenuti e della profondità
di pensiero.
Ogni rinnovamento letterario ha le sue radici nel mutevole
sentire della società civile; il rimetterlo in discussione, nasce dalla necessità
di pochi; di quelli che avvertono l’opportunità di un immediato cambiamento di rotta, non tanto per urlare
al rinnovamento fine a se stesso, cosa abbastanza ignobile e stupida, quanto
piuttosto per l’aver percepito prima di altri l’esaurirsi delle risorse
intellettuali, etiche, morali che avevano determinato la precedente crescita.
Va sottolineato che non esiste l’attesa del rinnovamento,
perché questo avviene spontaneamente, senza che ce ne accorgiamo. Piuttosto
esiste la consapevolezza di vivere in un periodo in cui emerge soltanto la
superficialità, l’apparire, il cercare le amicizie adeguate per imporsi e
trionfare in tutti i campi. E questa consapevolezza ci porta a credere o a
sperare che qualcosa dovrà per forza cambiare in un prossimo futuro.
E’ vero che la società senza un impulso utopico è
destinata a ristagnare, ma deve esserci anche chi è in grado di dare questo
impulso. Va anche ricordato che molte società, proprio per seguire impulsi
utopici o utopistici, si sono trovate in conflitto tra loro, determinando
guerre catastrofiche.
Dobbiamo essere uomini liberi, e pensare che esistono
tante diversità nel mondo, diversità, si badi bene, che sono la ricchezza dell’umanità, la vera forza
trainante. Per condividere con gli altri, degli ideali da perseguire, bisogna
prima di tutto aver lavorato a fondo, e con continuità dentro se stessi, aver
studiato e riflettuto, ed essere consapevoli che qualsiasi ideale o valore
culturale è soggetto come tutte le cose al tempo e al logoramento. Per questo
motivo non si può parlare di ambizione di un letterato, ma piuttosto della
capacità che questo può o potrà avere nel tracciare, a volte anche
inconsapevolmente, nuove strade culturali con le sue stesse gambe. Il poeta o
l’artista in generale è tale se avverte la necessità di partecipare la propria
creatività agli altri, come un’offerta o come un dono, il cui unico
corrispettivo si evidenzia in una forte stretta di mano o nel ricevere un
grazie, uno sguardo illuminato, o un semplice sorriso. Dobbiamo dire anche,
però, che per avere artisti veri, è necessario creare strutture adeguate per
far germogliare le più vive intelligenze. E questo è compito di chi dirige la
società, cioè della politica.
I politici dovrebbero comprendere che i cittadini non
sono soltanto dei consumatori di beni e servizi, ma anche delle persone che
pensano e che sognano, che si pongono problemi esistenziali, che sentono e
scrutano il proprio io profondo, che amano se stessi, gli altri e tutti i
componenti della natura che li circonda,
consapevoli che il tempo della vita è sempre troppo breve per conoscere e per
apprendere.
Ritornando alla poesia, posso infine dire che essa segue,
come del resto ha sempre seguito, infiniti rivoli. A volte è morale, a volte è civile,
a volte è religiosa, a volte esalta la bellezza, a volte stimola a fare, a
volte è patriottica e a volte riveste carattere universale.
I linguaggi della poesia sono svariati, come svariate
sono le sensazioni poetiche. Il voler per forza rinnovare il linguaggio poetico
è una frenesia non condivisibile. Il linguaggio, come detto all’inizio di
questa mia trattazione, segue il sentire condiviso delle cose, ed è la stessa
società che lo determina in continuo mutamento. Creare volutamente canoni nuovi
non condivisi dall’attuale società, non significa essere all’avanguardia, ma
credere che l’innovazione forzata si identifichi essenzialmente nel
rinnovamento formale, svilendo così i contenuti, che in tutt’uno collegati con
questa, rappresentano i pilastri comunicativi della poesia.
In ultimo vorrei sottolineare che la comunicazione della
poesia avviene attraverso i suoni, questi creano un’onda che viene percepita
dal nostro sentire. La melodia è propria della musica. Oggi noi apprezziamo le
musiche del passato e le attuali, proprio perché entrambe risultano gradite ai
nostri orecchi. Ed è così anche per la poesia. L’endecasillabo resta e resterà
il verso più apprezzato proprio per la bellezza e la perfezione dei suoni. Per
tanti secoli esso è stato condiviso ed apprezzato da quasi tutti gli scrittori.
E’ giusto e doveroso rinnovarsi, ma che il rinnovamento non significhi imporre
suoni striduli, aspri o sgradevoli per il solo scopo di voler apparire per
forza riformisti.
Le riviste letterarie devono promuove tutte le attività
poetiche, mettendo in luce i pregi ed i
difetti accertati e condivisi dalla critica corrente. Saranno i lettori a dare
più credito a questa o a quella rivista secondo la loro percezione e la loro
sensibilità. Oggi le riviste letterarie, nate non per esaltare i propri poeti,
che spesso sono gli stessi componenti della redazione, ma per promuovere le
iniziative e le nuove tematiche della poesia e della scrittura in generale,
hanno il dovere di criticare e di stroncare là dove è necessario, ma anche di
far conoscere i veri talenti, spesso oscurati o trascurati dai tanti critici
d’arte troppo impegnati in attività più lucrative.
Io non credo e né avallo il giudizio espresso da Javier
Marias, 57 anni, scrittore spagnolo, tradotto in tutto il mondo: “Gli artisti,
scrittori, poeti o scultori che siano, sono una categoria autodistruttiva. Sono
aridi, narcisi, megalomani, provocatori, noiosi, sicuramente peggiori delle
loro opere. Non c’è motivo di ammirarli. ”
(dal Corriere della Sera pag 56 del 15. Febbraio 2009). Spero vivamente
che ciò non sia vero, ma riflettiamo con la dovuta umiltà.
Angelo Sagnelli
Nessun commento:
Posta un commento