giovedì 26 aprile 2012

La novità della vecchia pittura


LA NOVITÀ DELLA VECCHIA PITTURA
Di Ennio Calabria

Quando apparve la fotografia, la pittura temette di morire.
La foto le aveva tolto all’improvviso la sua funzione sociale più riconosciuta, quella di consegnare al tempo futuro la documentazione visiva del presente.
Per salvarsi la pittura doveva cercare nella propria genericità le ragioni del proprio diritto ad esistere.
“L’informale” è forse il livello espressivo più alto di questo contrapporsi identitario alla foto e in cui la pittura sembra la massima ansiosa onnipotenza del suo ripiegarsi su se stessa.
Era come se la pittura avesse detto alla foto: “Tu sei abilissima a documentare in tempo reale le apparenze delle cose, ma le congeli in fotogrammi di morte, perché le separi dal fluire del tempo. Io invece sono un organismo vivente.
Vedi, se mi apro il ventre, puoi vedere il sangue, gli organi e puoi accorgerti che il mio tessuto organico è una dinamica matrice che contiene un numero di contraddizioni molto più alto di quello che i tuoi pixel sopportano.
Al contrario della tua funebre sospensione del tempo, quando tornerò a documentare la realtà le mie immagini saranno un fotogramma che conserverà l’appartenenza alla continuità del tempo e dei dinamismi della vita.”
Tuttavia poi, per ragioni molto complesse, i tempi di questo ripiegarsi della pittura su se stessa si sono allungati troppo.
Quella prima sofferta, necessaria reazione alla diffusione della foto si è patologizzata in un comportamento narcisistico.
L’esposizione delle proprie viscere è sempre più percepito come atto valido in sé, esaustivo e sempre più immemore dell’antitesi che l’aveva determinato.
Così la pittura, smarrito il suo riferimento di contrasto, va perdendo la consapevolezza del rapporto di causa-effetto tra il proprio processo e quello che dà luogo alle presenti tecnologie della visualizzazione, nella loro relazione con l’attuale contesto sociale.
Vanificata la sua tensione a causa della rimozione razionale ed emotiva della sua antitesi, smarrito l’orientamento per la perdita della propria relazione con il contesto sociale presente, la pittura, nella sua dimensione quantitativa più ampia, collassa in uno stanco citazionismo del passato remoto, o in vaghe e spesso velleitarie rivisitazioni al presente di esperienze dell’avanguardia storica o, infine, in una confusa accademia di sé.
Parlo naturalmente della pittura e dei suoi tentativi di rifondarsi in sé. Senza contaminarsi con altre discipline. Non credo, per esempio, alle manipolazioni delle foto al computer, che snaturano la foto e vanificano la pittura.
In senso più generale sono infatti convinto che si possa ritenere ormai esaurita l’esperienza interdisciplinare che hanno vissuto le discipline artistiche all’inizio del novecento, per cui in nome di una presunta “unità della poesia”, ciascuna disciplina cedeva parti di sé alle altre.
Quell’esperienza ha prodotto volta per volta variazioni nel contesto, ma raramente ha avuto la forza di proiettarsene oltre.
Oggi poi, se si vuole immaginare qualcosa di veramente innovativo, occorre che una disciplina si radicalizzi in sé e che casomai vada ad esplorare di nuovo i propri “sotterranei”, in cui il suo sapere si conserva nella sua forma incipiente e magmatica. L’esatto contrario di quella ormai lontana esperienza interdisciplinare che subordinava la potenzialità conoscitiva specifica della disciplina, alla dogmatica presunzione dell’esistenza di un’unità della poesia.
Oggi che le esperienze coesistono ciascuna nella propria autoreferenzialità, ci si accorge di quanto ormai sia inattuale quella posizione.
Oggi è come se ci trovassimo di fronte ad attori che recitano ciascuno il proprio copione autoreferenziale, e se alla fine si produrrà un copione generale questo “accadrà” per la non verbalizzabile “induzione” che ogni attore, per la sua stessa presenza, produrrà negli altri.
In questo quadro di riferimento la pittura deve assumere consapevolezza dell’ attualità che proprio la sua stessa natura disciplinare le fornisce.
Il primo fatto, e forse il più importante, è quello di consentire al pittore di entrare ogni volta in rapporto con le fasi magmatiche delle future potenzialità, con una dimensione cioè che contiene già i presupposti di ciò che poi diverrà “codice”.
Per questo nella pittura i pensieri, i contenuti e i concetti nascono lì, in quel momento e mediante i sussulti fisiologici della pittura nel suo farsi.
Una volta, tanto tempo fa, stavo dipingendo un uomo visto dall’alto che produceva una grandissima ombra rossa che io realizzavo faticosamente con piccole pennellate.
Titina Maselli, pittrice, mi disse: “Ma perché perdi tanto tempo? Tu sei un pittore visionario, e allora ritaglia una grande plastica rossa e ci fai l’ombra”. Ecco, qui sta la questione.
Se avessi fatto così, come la mia amica mi consigliava, avrei “illustrato” un’idea.
Invece, dipingendola, quell’idea avrebbe avuto la sola funzione di stimolare dal mio interno l’emersione di ciò che non sapevo, e di farmene carico.
Voglio dire che la pittura ha la possibilità di sollecitare la coscienza ad assumersi la responsabilità persino dell’attività di quelle parti della psiche considerate dalla storiografia non recensibili, perché ritenute laterali, esterne ai confini del territorio di cui la coscienza si assume la diretta responsabilità.
In tal senso la pittura oggi si propone come disciplina di fondazione di una diversa forma della soggettività, capace di muovere “spaesata dal già pensato” e di farsi carico di ciò che invece una coscienza preorientata non può controllare.
Del resto gli artisti del novecento avevano già presagito la crisi della forma storica del “soggetto” occidentale, di un soggetto cioè che muove in continuità coerente con il “già pensato” che, comunque, resta il suo orientamento; soggetto che pretende di controllare tutto e che quando si imbatte nel caso, pretende di vessarne la libertà riportandolo entro le proprie intenzioni, oppure non se ne assume la responsabilità.
Molti artisti del novecento hanno cercato di prendere le distanze da questo ingombrante soggetto in diversi modi.
Alcuni di essi hanno ritenuto più credibile investire più che sul proprio gesto, sull’ironia di esso.
In quei casi l’ironia su di sé fu il vero passe-partout per il consenso sociale, e ciò voleva dire che già iniziava a determinarsi la percezione della crisi di un ordine sociale, e che iniziava a manifestarsi una certa disponibilità all’incontro con l’imprevedibile accadere delle cose, consapevoli di essere meno protetti da schemi sicuri.
Altri artisti invece si potrebbe dire che abbiano confinato l’azione di una soggettività programmante.
Essi hanno usato la loro immediata consapevolezza sino ad ipotecare un escamotage che li liberasse dall’ossessione di dover controllare, sino a programmare, un gesto oltre il quale l’artista non si assume più la diretta responsabilità di ciò che accadrà. 
Duchamp è come se si fosse detto: “Come ultimo gesto consapevole, io affermo che un oggetto decontestualizzato dal proprio contesto funzionale ed esposto in uno spazio espositivo, sarà un nuovo oggetto e determinerà in chi lo vedrà processi associativi nuovi e imprevedibili”.
Ciò significa però che Duchamp, come soggetto consapevole, si assume una diretta responsabilità sino alla messa in atto della sua intuizione, ma dal momento in cui quell’oggetto decontestualizzato verrà esposto, ciò che accadrà, accadrà fuori e oltre la responsabilità del soggetto Duchamp.
Pollock fa la stessa cosa: fissa quel gesto che apre al libero e casuale agire delle colature della materia, come limite della sua diretta responsabilità di soggetto.
Ma nel caso di Pollock il discorso è più complesso perché quel gesto non segna il limite tra responsabilità e casualità e basta, ma segna il limite tra una forma della sua soggettività e la ricerca di un’altra nuova forma del suo modo di porsi come soggetto.
Infatti Pollock sperimenta la possibilità di farsi carico della casualità e della sua imprevedibile produttività partecipando, in una alleanza di destini, al suo libero determinarsi.
Mi piacerebbe proseguire ma per ragioni di spazio devo fermare qui la mia riflessione. Volevo solo esprimere la mia convinzione sull’attualità della pittura e sulla sua necessità.
Questo naturalmente se la pittura assume coscienza di sé e coscienza di essere il potenziale soggetto capace di riportare, come oggetto comunicabile nella comunicazione sociale, i “sintomi” che le dimensioni complesse della personalità inviano da quell’esilio in cui la dimensione pragmatica della società le ha confinate.
Questo può fare la pittura se si radicalizza in sé, per poi rivolgersi di nuovo al suo esterno, verso la società.
Al contrario, vediamo come l’uscita dalla sua natura disciplinare la indebolisca.
Per esempio vediamo che se un pittore abdica al proprio processo fondamentale sostituendolo con quello del computer, atomicamente si produce uno spostamento verso l’uso di codici e di pensieri conclusi precedentemente.
In questo caso l’accezione della massima creatività non è “il generare” ma “la sorpresa” che deriva dal gioco intertestuale che pone a confronto testi già conclusi.
Oppure è “l’emozione” che deriva dall’estetizzazione e dall’emotivizzazione del già pensato.
Concludendo, vivo la pittura come espressione del travaglio soggettivo di cui essa è portatrice come “verità testimoniale”, in antitesi alla falsa coscienza che ormai ha sostituito l’autorità del piano oggettivo degli scambi.
C’è anche da dire, infine, che è riconosciuta da molti la debolezza testimoniale delle immagini mediali.
Per questo la pittura può e deve contrapporsi all’egemonia della documentazione di derivazione fotografica, e deve dimostrare di essere portatrice di verità e comunque di un numero e di una qualità di informazioni diverse ma altrettanto attuali di quelle di cui la foto è capace.
Io oggi lavoro affinché la pittura riacquisisca funzione sociale, fornendo spessore alla comunicazione oltre la pelle della superficie.
Lavoro affinchè la pittura sia uno strumento che possa consentire alla complessità esiliata di fare cortocircuito con le dimensioni della superficie su cui vive l’odierna società, e conseguentemente produrre esperienza.

                                                                                   Ennio Calabria

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